“L’eccelsa rupe” di Rosario Ilardo a Castelbuono

Ritratto di Italo Piazza

31 Dicembre 2013, 18:14 - Italo Piazza   [suoi interventi e commenti]

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“L’eccelsa rupe” di Rosario Ilardo a Castelbuono. Gli interventi dei relatori, le conclusioni dell’autore
di Italo Piazza


Si è svolta a Castelbuono, il 30 novembre scorso, nella suggestiva sala capitolare della storica badia delle monache benedettine di santa Venera, la presentazione del libro “L’eccelsa rupe. Studi, ricerche e nuove prospettive storiche sulla Rocca di Cefalù”, del nostro concittadino Rosario Ilardo, edito dalla Officina di Studi Medievali di Palermo. Un evento culturale fortemente voluto anche dalla civica amministrazione di Castelbuono, presieduta dal sindaco dott. Antonio Tumminello, e dalla Biblioteca comunale della Badia, a conferma del grande interesse che l’opera riveste non solo per la storia cefaludese, ma anche per quella madonita e siciliana più in generale.

Mi sembra di fare cosa utile portare all’attenzione dei lettori, sebbene con ritardo,  quanto emerso dalle puntuali relazioni tenute dal prof. Angelo Ciolino, componente del consiglio di Biblioteca, e dall’avv. Mario Lupo, direttore dello storico periodico castelbuonese “Le Madonie”.

Ha concluso i lavori l’intervento dell’autore, mentre ha portato i saluti dell’amministrazione comunale di Cefalù il dott. Salvatore Curcio, essendo il sindaco Rosario Lapunzina impegnato fuori sede.

Ha aperto i lavori il prof. Ciolino:

«“Dirupi inaccessibili ed erme balze” …“spaziose grotte e profondi pozzi” ”tra verdeggianti colline” .. “alta vetta tinta di color rancio che si disegna per un orizzonte azzurro” respirando “quell’atmosfera sublime, profumata dall’olezzo di vario-pinti fiorellini, umidi ancora di” salsedine. Una sensazione maestosa e al tempo stesso leggiadra”  che salendo sulla cima faceva ripetere – al padrone di casa in questo luogo, il grande eclettico scienziato e filantropo castelbuonese, Francesco Minà Palumbo- le espressioni di Houel nel suo viaggio in Sicilia: “Il calore dei primi raggi del sole riscalda il mio sangue e rispande nell’aria un balsamo riparatore, un incanto delizioso che penetrò sino in fondo nell’anima mia e mi fece sentire con eccesso la felicità di esistere, egli è impossibile di provare una sensazione più ravvivante, essa partecipa della voluttà e dell’ebbrezza: la salute e la felicità circolavano ovunque nelle mie vene” 

Queste citazioni iniziali dal’Introduzione alla storia naturale delle Madonie di F. Minà Palumbo, non sono soltanto doverose o campanilistiche, ma nascono dalla condivisione del calembour cefalutano di Antonio Franco (contributo presente nell’opera) che vede la Rocca “piccola parte di Gaia … e parte nobile ( il capo) delle  Madonie, organismo che vive, microambiente in osmosi con l’intero.  “protesa sul mare infinito … per legare lo straordinario tesoro naturalistico <dal duro fittone terragno> ai colori cangianti di una grande spiritualità”.

Ma eccoci al manifesto dell’opera di Rosario Ilardo che oggi si presenta: “La rocca va scoperta passo dopo passo, con fatica e desiderio, calpestando terra, roccia, fango e limo, per guadagnarsi lentamente l’incanto di uno scorcio e godere le meraviglie di un paesaggio che muta ad ogni sguardo che cangia ad ogni incedere … e trasformare questo sentire  in  …  “autentico rifugio dell’anima, … ricerca della Verità …  finestra aperta sulla propria interiorità … luogo eccelso” – Eccelsa Rupe.

Ma eccelso è chi dopo una vita intensa, unanimemente apprezzata per l’amore all’ambiente (scautismo), la religiosità, l’umanità, il senso della famiglia e delle istituzioni, la professionalità ha dedicato gli anni dell’otium ad un’opera che onora la sua personalità ed arricchisce la comunità cefaludese, il patrimonio culturale madonita, il campo della ricerca e della documentazione storica (e non solo).

Il Dottor Rosario Ilardo ha certamente risposto all’invito a contribuire “con accuratezza e studio” alla storia naturale delle Madonie a cui, già a metà ottocento,ci invitava il Minà Palumbo, convinto che queste ricerche “non possono portarsi a compimento da un solo uomo; egli è dunque duopo, che molti isolatamente se ne occupassero, percorressero prima quei luoghi, indi pubblicassero le loro osservazioni, e mirando tutti ad un unico scopo … formarne un’opera completa”. Prima  di essere privati delle ricchezze che gli oltramontani (ma anche l’ignoranza e l’arroganza dei locali) vengono giornalmente a detrarci con quest’opera si illustra questo monte così  interessante confermando che tutt’ora “esistono - tornando alla citazione - i geni siciliani ed in loro esiste la suscettibilità di addivenir possenti e grandi”.

Per noi di Castelbuono è bene spendere qualche parola sull’autore, molto conosciuto ed apprezzato nella sua Cefalù, dove è nato nel 1928 e compiuto gli studi per accedere alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo e completare la sua formazione accademica in scienze e tecniche amministrative a Roma. La sua quarantennale carriera di Segretario Comunale (anche a Castelbuono nel 76 -77) e Provinciale, qualificata da specializzazioni e aggiornamenti presso le più alte istituzioni accademiche nazionali, si è conclusa quale Segretario generale della Provincia regionale di Palermo ed è stata illustrata da numerose pubblicazioni, tra cui “Lineamenti di diritto ambientale in  Sicilia” e “La ristrutturazione della nuova provincia regionale”. Ha svolto anche “servizio politico” come Commissario (1963) e Sindaco di Cefalù (1970 -73). Ho avuto il piacere di essere coinvolto nell’Istituzione del Centro di cultura e spiritualità “Duns Scoto” di Gibilmanna, da lui presieduta, forse l’esperienza più ambiziosa tra le tante che in campo ecclesiale e culturale il Dott. Ilardo ha ricoperto nel nostro territorio e, in particolare,a Cefalù dove è ancora impegnato in quanto magister della comunità degli adulti scout.

Ancora due note, da castelbuonese che ama Cefalù, per avervi trascorso più di cinque anni della propria adolescenza, in una residenza  che permetteva di ammirare  i colori della rocca, nelle varie stagioni e nelle diverse ore del giorno e della notte, colori che facevano da fondale affascinante e misterioso all’imponenza del Duomo, custode della più eloquente immagine cristiana, il Pantocratore.

La prima nota: nella recente pubblicazione del mio amico prof. Massimo Genchi “Bibliografia dei lavori di Francesco Minà Palumbo”, l’ultima carta,  l’ottava, disegnata dal naturalista castelbuonese, prima inedita, dal titolo “Classificazione delle Madonie del prof. Villanova di Madrid” che risale al 1867, una sezione Nord-Sud delle Madonie mette in risalto i calcari della Rocca di Cefalù, delle colline di sant’Anastasia, di sant’Elia e del massiccio delle Madonie, secondo la classificazione data dal Villanova durante il suo viaggio in Sicilia, tra il 1852e il 1853, che comprende anche “las celebres montañas de las Madonias”. A corredo della carta il Minà riporta questo passo del rendiconto del Villanova: “Avendo trovato all’uscita di Cefalù dei pezzi d’ippuriti non dubito, che la roccia di Cefalù sia ippuritica; i fossili e le rocce vedute presso Dr. Minà raccolti nelle Madonie mi han confermato in questa idea, e ciò per questo che i due estremi di questo taglio sono della medesima natura. Quanto all’arenaria alternante cogli strati di argilla, marna e calcario non posso dubitare che tutto sia terreno nummulitico, dopo aver trovato in S. Anastasia dei veri nummoli”. La tavola è una testimonianza stupenda di quel legame profondo tra le Madonie e la sua “testa sul mare”

Un’ ultima nota è a proposito della mole del lavoro che oggi viene qui presentato, per cui vorrei citare quanto il nostro storico Orazio Cancila scrive nella prefazione al suo “Nascita di una città – Castelbuono nel secolo XVI”: “ Ho appreso … che un lavoro monografico deve avere una sua unità ed organicità e che non tutti i dati  che la ricerca produce sono utilizzabili. … Ho riflettuto se fosse sensato escludere dalla trattazione informazioni, episodi … nozioni di cui sono venuto a conoscenza nel corso delle ricerche, noti soltanto a me e forse condannati ad essere definitivamente ignorati … . Ho deciso quindi di raccogliere tutto e di non buttare niente, anche se le continue digressioni rompono l’unità della mia ricostruzione”.

È  proprio da qui che entro nel merito dell’opera affermando che bisogna essere grati a chi riesce a salvare un patrimonio di conoscenze, di studi, di analisi, di documentazione che nell’era contemporanea della civiltà della sola immagine e del digitale rischia di scomparire. Deve essere grata Cefalù, devono essere grate le Madonie e la Sicilia intera per questo viaggio nei secoli e nei millenni alla ricerca di quella genesi, orientale e preellenica che il Dott. Ilardo privilegia per la nostra civiltà e la lettura dell’Eccelsa Rupe. Ma devono essere grati anche gli studiosi, quelli di professione, perché solo da una passione ed un amore profondo per i luoghi poteva nascere una ricerca così ampia ed approfondita.

L’opera di 700 pagine di grande formato, di cui 356 di trattazione dell’autore, più di 50 pagine di contributi di religiosi, letterati, esperti; 200 di apparato fotografico e tavole grafiche e pittoriche e ancora 100 pagine tra tavole cronologiche, tabelle (XXVII) e ben 20 pagine di bibliografia , più gli indici.

Cinque sono le parti della trattazione, ben strutturate in capitoli, paragrafi e punti.

La Parte Prima “Della Sicilia Antica e del “mondo mediterraneo” inizia con i ritrovamenti preistorici dal Paleolitico fino all’eneolitico, con riferimenti alle scoperte in tutta la Sicilia, ma in particolare nelle grotte del “Vecchiuzzo” di Petralia e del “Fico” di Isnello, con i loro interessanti reperti che segnano il collegamento tra la nostra isola, le altre isole (Eolie, Baleari.. ) e le coste orientali del Mediterraneo. A seguire le ipotesi e tesi sugli abitanti della Sicilia, dai leggendari ciclopi, ai Lestrigoni,  e poi dal XIII sec. a.C i Sicani, con i dubbi sul loro essere autoctoni o di origine iberica, e poi dopo i Siculi, di sicura origine italica, che si insediano nella Sicilia sud orientale; e via via gli altri sino  all’arrivo dall’Africa dei Fenici  e dei popoli di mare e infine i coloni greci.

Nel secondo capitolo Ilardo si appassiona alle civiltà preelleniche perché in esse vede i segni di alcuni elementi costruttivi della “rupe” per cui coglie, solo per fare qualche riferimento,  l’importante ruolo della donna minoica, le rotte e i porti franchi, nelle Eolie e nella Sicilia, dei navigatori micenei, e la sfera cultuale della civiltà egiziana, con cenni di una visione monoteistica e il fascino degli impianti megalitici, che tanto interessano l’autore. Le tracce di queste civiltà  sono poi seguite soprattutto nelle isole del bacino centro occidentale del Mediterraneo da Malta alle Baleari, dalla Sardegna con le (civiltà nuragiche e prenuragiche) alle Egadi  (Ulisse, Enea) alle Eolie, vero scrigno di reperti (Villaggio di Capo Graziano di Filicudi). Non manca nel IV cap. un viaggio nelle civiltà  del vicino oriente (Sumeri, Assiri, Babilonesi) nella profonda convinzione del nostro che “ex oriente lux”

Nella Parte seconda, “Conquista e sedimentazioni culturali in Sicilia” si parte dalla fondazione di colonie greche nel mediterraneo, “come rane intorno ad uno stagno” con la citata metafora platonica,  ed in Sicilia, anche se in nessun documento storico si parla di Cefalù.  Interessanti invece sono i riflessi su Cefalù dello scontro tra Roma e Cartagine a partire dall’assegnazione di Termini e Cefalù (roccaforte ben munita, città ricca e popolosa (?)) ad Agatocle nel 306; nella 1a guerra punica Cephaledium città decumana (importante la nota sulle civitas  romane); poi le importanti testimonianze ciceroniane nelle sue verrine, con i relativi episodi di corruzione per l’elezione del sacerdote (segno che Cefalù era città e non solo un forte), lo spaccato di vita di una comunità con le sue forme di democrazia. Incerte invece le notizie su un tempio di Giove le cui colonne sarebbero poi state utilizzate nella cattedrale. Una domanda: come mai non c’è nulla di tutta l’epoca imperiale?

La trattazione si fa dettagliata ed interessante per l’età bizantina epoca in cui Cefalù diventa roccaforte, certamente in funzione anti islamica.  Un ampio ed articolato paragrafo 5 descrive con precisione le opere bizantine di fortificazione della rocca, frutto di un “progetto (in 14 punti) composito e ben strutturato che avrebbe reso imprendibile (ma Ilardo vede 5 punti vulnerabili) la città. In particolare viene studiata la struttura e la posizione della porta tra i due sbarramenti a quota 95 s.l.m. e 130 -5.

Un paragrafo importante perché proietta le tematiche storiche sulla valorizzazione, a volte lo sfruttamento, dei beni artistici monumentali ha come titolo “Rupe e città”.In esso si esalta il continuum spazio temporale, la necessaria integrazione tra uomo e natura e si condanna la foga edificatoria, si ribadisce il solo accesso pedonale alla rupe, si sostiene il “Piano paesistico particolareggiato della rocca” e si propone la creazione del “Parco naturalistico –archeologico”.

Saltando all’età normanna , e quindi all’età de “L’invenzione del regno”, come la chiama Pasquale Hamel, in uno studio molto interessante (dalla conquista normanna alla fondazione del Regnum Siciliae)  oltre a rilevare il rinnovamento culturale e la grande apertura espressa anche nel corpus legislativo (“greci, arabi, ebrei longobardi dovranno continuare a vivere come sempre hanno vissuto secondo i costumi dei padri”)  colpisce la costruzione della Chiesa – fortezza di Cefalù, “sagoma solenne, sotto la rocca svettante, quasi veliero nordico pronto a salpare, … in un contesto di riordino civile del tessuto urbano e il consolidamento militare della cinta urbica e della fortificazione della rupe”.

Del periodo storico coevo alla nascita, accanto al borgo bizantino di Ypsigro del baglio fortificato e poi di Castelbuono e quindi del periodo federiciano, angioino, ed aragonese nonché del rapporto tra Ventimiglia e Cefalù, sarà l’avvocato Lupo a parlarne; così della necessità di modificare l’assetto ed il ruolo del sistema delle fortificazioni alla luce dei nuovi sistemi offensivi.

A proposito dell’importante secondo capitolo su “La rupe incastellata”, le  problematiche dell’incastellamento nelle varie epoche e la necessità affermata da Ilardo “di ricostruire nella contestualità degli elementi e dei luoghi” volevo soltanto condividere, anche per Castelbuono, l’allarme che “la storia, non solo quella narrata, ma quella naturalmente scritta dalle abili mani degli artefici che hanno avuto la maestria di trasformare in una formidabile fortezza fusa con la roccia viva, punto focale della città … oggi si è dovuta arrendere al deprimente vuoto progettuale in assenza di adeguati indagini archeologiche” ed aggiungo in mancanza di tutela del paesaggio connesso.

La terza parte del volume dal titolo “Remoti echi d’Oriente” è tutta dedicata allo studio dettagliato (circa 50 pagine + illustrazioni) del “palazzo santuario ciclopico – megalitico”  ovvero il cosiddetto tempio di Diana, con annessa cisterna o tomba e l’analisi dei preziosi reperti del sito. Merita di essere citata l’immagine del grande viaggiatore Houel  (presente nelle tavole pittoriche), e la descrizione di un altro viaggiatore ottocentesco  Reclus: “mezzo celato tra rovi ed ortiche e spine e malgrado tanto abbandono è questo,  per la sua antichità,  il più venerabile edifizio di tutta la Sicilia”.  Ilardo, dopo aver lamentato l’attualità di tale impressione si diffonde per ben 12 pagine nelle interpretazioni storiografiche – archeologiche del monumento; da quelle più antiche del IV sec. (il geografo Vibius Sequester IV sec ) a quelle medievali e rinascimentali (Fazello), ai moderni (Cluverio e Passafiume), dai grandi viaggiatori dell’800 (gli inglesi Wood e Nott) allo studio del De Seta (1928) ai tanti scritti sul tema di cefaludesi (Misuraca, Vazzana ,Portera, Asciutto, Franco) agli archeologi (Bovio Marconi, Tullio, Arcuri, Vassallo). Per il nostro non ci sono dubbi sull’origine orientale della costruzione e sulla sua funzione cultuale, sia per le tecniche costruttive che per alcuni particolari (menhir, betillo, dolmen) perché sostiene, con una citazione di Moscati, “Le pietre di per sè parlano poco, ma cominciano a parlare quando vengono datate e messe in relazione con ambienti e fatti noti …” Gli approfondimenti sullo scarabeo,  locale o egizio? in ogni caso di ispirazione orientale, è accuratissima e culturalmente, ma anche sentimentalmente stimolante. Non ho elementi per giudicare, ma lo studio della cisterna, che per Ilardo è stata quasi sicuramente una tomba, rivela perizia da vero archeologo  che analizza e confronta tipologie e siti di un vasto bacino, per concludere che “l’architettura ciclopico –megalitica di palazzo, santuario, sepoltura non può che essere di età remota o preistorica, di influenza orientale e pre-greca “ e con l’ipotesi addirittura che Iperbio ed Agrola, architetti della cinta ciclopica megalitica dell’acropoli di Atene, potessero provenire da Cefalù.

La parte quarta “Dalle prime frequentazioni umane agli sviluppi più recenti” è una esplorazione a tutto campo, ed anche ardita, di ogni angolo, emergenza, tipicità, con approcci ora scientifici, ora da storico, ora poetici, sempre profondamente umani, di una umanità che si rivolge al trascendente.  Si inizia con le testimonianze paleolitiche: le tante grotte (ha quasi esaurito le lettere dell’alfabeto per elencarle) tra cui, sul versante orientale “due stazioni preistoriche di interesse sia geologico, che paleontologico, biologico ed archeologico” quella delle Giumente e quella dei Colombi. L’archivio storico della rocca le definisce l’autore, lamentando la scarsa valorizzazione dei reperti ivi rinvenuti, spesso grazie all’opera generosa di “esploratori”, e poi “depositati” nei magazzini del Salinas, tranne qualche pezzo fortunato che si trova al Mandralisca. Per me è stato poi affascinante la descrizione,nonché le foto, della grotta del “Gran salone delle fate”, che ragazzo dodicenne ho avuto la ventura di “esplorare” con grande incoscienza, alla luce di semplici lucciole e non certo guidati da persone esperte, ma le cui stalattiti e stalagmiti mi sono rimaste impresse più ancora di quelle che avrei poi visitato a Frasassi o Castellana. Un ampio capitolo, poi, esamina le altre evidenze archeologiche della rocca anch’esse tanto importanti, ma su cui dobbiamo sorvolare: le cave (con un approfondimento sulle tecniche storiche di estrazione);  introdotte poeticamente con una animazione del sistema di raccolta e conservazione delle acque le cisterne (tra le quali colpisce quella “d’autore” ovvero firmata); le chiese di S. Venera (bizantina), S. Anna (ventimigliana), San Calogero e la cappella in castro, dedicata a San Michele, dotata di cappellano fino al 1630; il sistema delle torri di difesa oltre che sulla rocca ben 6 ad ovest sino a Roccella e 7 ad est sino a Tusa (con la proposta di un parco storico – naturalistico – archeologico delle torri della marina da incentrare motivatamente alla Calura); e poi le casermette, i forni, i magazzini. Anche gli interventi dell’ultimo secolo, la stazione semaforica (1850), la croce in ferro (1925) con citazione poetico/religiosa di Jacopone da Todi, e il certo non accorto rimboschimento degli anni 60 del ‘ 900 sono attenzionati.

Nella quinta ed ultima parte tutte le falde della rocca vengono visitate nelle loro emergenze storiche, paesaggistiche ed ambientali: edifici, impianti termali (?) di S. Domenico e di depurazione , mura più o meno antiche, testimonianze epigrafiche, mulini (quello presso il bivio di Gibilmanna  ha una descrizione così puntuale da poter essere restituita graficamente). 

Per chiudere voglio solo rilevare l’attenzione dell’autore per il tema degli usi civici sul territorio, in gran parte patrimonio della chiesa cefaludese, e poi “città e terre del demanio franche da dogana”  e l’ampia storia del porto di Presidiana (vengono esaminati i tanti progetti  dall’epoca di Ruggero II al progetto Camilliani del XVI sec. a quello borbonico ai lavori tra gli anni 50 e 70 ed infine il progetto Botta dell’ultimo decennio con tutte le incompiute e delusioni) che si intreccia con la grave ferita dell’attività delle cave e dell’interruzione della strada dell’acqua. Ma della complessità di questa parte del lavoro  è espressiva l’amarezza dell’autore nel rilevare “il gorgo voraginoso che separa la Politica del fare da quella del dire e del promettere”.

“È bene, allora – concludendo con il contributo all’opera di mons. Cefalù – che tutti , in particolare coloro che hanno il privilegio di rivestire cariche pubbliche, diano prova di agire con spirito civico e coscienziosità istituzionale accostandosi alla Rocca – Libro aperto della creazione e Libro della memoria – con la stessa trepidazione di chi si appresta a sfilare le fibbie che serrano gli impalpabili fogli di un codice miniato, per non offendere “il disegno di Dio creatore” e per non provocare un disordine che finirebbe per tradire l’identità stessa dei luoghi e la sacralità del paesaggio”».

Ha preso, poi, la parola l’avv. Lupo:

«Essendo stata l’analisi del prof. Ciolino  puntuale ed esaustiva sotto l’aspetto tecnico-scientifico, mi limiterò, a braccio, a fare qualche breve considerazione di ordine personale, che riguarda non solo il valore dell’opera in generale, ma anche la figura dell’autore, uomo di forte personalità e di fine intelletto, che conosco bene da vecchia data.

Quando il dott. Ilardo, che incrociai un pomeriggio a Castelbuono, mi accennò alla sua fatica, pensai si trattasse di un lavoro letterario, di tipo umanistico. Il nome, però, della Casa editrice, che avrebbe curato la pubblicazione, suggeriva, già allora, l’idea che lo studio avesse natura diversa: l’Officina di Studi Medievali di Palermo, diretta dal prof. Alessandro Musco, è, infatti, sinonimo di ricerca storica, di analisi scientifica, di studi metodici, seri e rigorosi. Il dott. Ilardo, cioè, aveva avuto  il coraggio di intraprendere un viaggio nuovo, avvincente e, al tempo stesso, insidioso “lungo gli impervi sentieri di quella parte della Storia che si dice locale”, per svelarci, sotto una luce diversa, la storia della Rocca di Cefalù, avendo avuto, al contempo, la forza di convincere l’Editore della bontà del suo decennale lavoro.

Molti ammirano e apprezzano l’eccelsa rupe di Cefalù da lontano, rimanendone estasiati e rapiti; pochi sono, però, coloro che ne conoscono le dinamiche storiche, le tante ricchezze celate, i segni di antiche presenze, la varietà e la bellezza del suo habitat. Ho avuto modo di visitarla da giovane, soffermandomi, però, solo dinanzi al monumento più rappresentativo, il cd. Tempio di Diana, ma scorrendo le pagine densissime del libro, corredato di splendide foto, mi si è spalancato un mondo nuovo: ho assaporato la piacevole sensazione di scoprire, lungo quegli impervi sentieri, passo dopo passo, pietra dopo pietra,  chiese, cisterne, grotte, torrette di avvistamento, possenti mura di difesa, incantevoli scorci paesaggistici che emozionano … E’ la dimostrazione di cosa l’uomo sia capace di fare, nell’arco dei secoli, quando intende insediarsi in un luogo eccelso, qual è la rupe di Cefalù, per farne la propria dimora.

Osservando la rocca e scrutando il mare  dalla parte della Giudecca, sotto la parete nord a strapiombo sull’abitato, dove un tempo era la casa di mia moglie, si intuisce  perché la storia di Cefalù ha avuto un respiro così diverso da Castelbuono,  pur essendo le due città legate  da stretti e storicamente rilevanti rapporti:  la via del mare apre tutti i confini, veicola, più velocemente che altrove,  civiltà, pensiero, idee. Ma, su questo aspetto, mi soffermerò più innanzi.

Sfogliando le pagine del libro, un dato appare di immediata percezione: è  il metodo di impostazione e di organizzazione della materia, che fa leva su argomentazioni rigorose e motivate, su una narrazione fluida e scorrevole, su uno spirito di osservazione sorprendente,  su una  fitta e inedita documentazione d’archivio, su un quadro d’insieme che consente  di comparare ipotesi  diverse e di rintracciare con facilità i vari autori che,  dall’antichità sino ai nostri tempi, hanno parlato e scritto di Cefalù. Il libro, fra l’altro, è supportato da una doviziosa e corposa bibliografia, strumento di consultazione indispensabile per tutti gli studiosi, unitamente ad un utilissimo e meticoloso indice dei nomi e dei luoghi, che agevola di molto nella ricerca.

Mi domando, allora: com’è possibile che un uomo, che per una vita intera ha studiato diritto,  norme, regole, procedure, tecniche amministrative, che appartiene, quindi, ad un mondo lontano da quello dell’umanista, dello storico, dell’archeologo, sia riuscito nell’ardua impresa di donarci un’opera che è di storia, che è di archeologia, che è di architettura, ma che, in realtà, è  tanto altro ancora?  C’è, infatti, la storia dei nostri giorni, narrata con  obiettività; c’è tensione spirituale; c’è religiosità;  c’è la giusta aspirazione  di un cittadino ad  immaginare una città diversa da come la vede oggi; c’è l’amarezza provata verso la politica dei proclami e delle promesse non mantenute; c’è tutto  il vissuto di un uomo, che lo autorizza e lo legittima ad avanzare proposte, programmi, progetti, soluzioni.  Ne è venuta fuori un’opera davvero originale, una sorta di grande antologia, di grande diario che ricorda quelli annotati dagli intraprendenti ed eruditi  viaggiatori del ‘700.

Io, che conosco  il dott. Ilardo  da parecchi decenni, ho avuto il privilegio di vederlo all’opera sul campo, essendo stato egli Segretario generale del Comune di Castelbuono  negli anni in cui rivestivo  la carica di vice sindaco della mia città  e so bene quali siano  le qualità professionali, umane e spirituali che contraddistinguono la sua figura. Avendo con lui in comune  gli stessi studi, anche se le specializzazioni sono diverse, mi sono fatto un’idea: la mente razionale di chi è abituato a districarsi nei meandri insidiosi, tortuosi e complessi dello sfaccettato mondo del diritto, a misurarsi e a confrontarsi di continuo con situazioni complicate, sfumate e imprevedibili,  meglio delle altre  è più aperta e incline a recepire, assimilare ed elaborare qualsiasi altro tipo di impulso, che sia di storia, di archeologia, di letteratura, di arte, di scienza … Se a questa dote, poi, si aggiunge la passione, da sempre coltivata in silenzio,  per l’antichità, accompagnata da  una  un solida formazione “classica”,  il nostro autore è la manifestazione palmare di come si possano raggiungere, con successo, traguardi apparentemente fuori dalla nostra portata.

Tornando ai rapporti prima accennati tra Cefalù e Castelbuono, non sempre, per la verità, questi sono stati idilliaci,  forse anche per via di una accesa rivalità campanilistica tra i due centri…: noi abbiamo la nostra “castelbuonità”, di cui andiamo orgogliosamente fieri; il tessuto sociale di Cefalù appare, invece, più sfrangiato, proprio perché porto di mare, città aperta ad accogliere gente, tradizioni e costumanze diverse. I legami, comunque, sono stati storicamente e culturalmente intensissimi. Solo qualche esempio: i Ventimiglia, nel bene e nel male, hanno signoreggiato, per quattro – cinque secoli, a Cefalù, lasciando del loro passaggio tracce  buone ed altre cattive …; sul finire del Cinquecento, Gian Tommaso Flodiola acquistò dalla Regia Curia di Palermo l’ufficio di Secreto di Cefalù, cioè a dire divenne amministratore di tutti i beni demaniali della città e li pagò, vita natural durante, 70 onze (come è dato sapere da un recente e approfondito studio su Castelbuono del prof. Orazio Cancila ), vivendo a Cefalù sino alla sua morte; e che dire, poi, (lo dico, s’intende, con sana e bonaria provocazione) di un altro grande siciliano originario di Castelbuono, il cefalutano più illustre di tutti, il barone Enrico Piraino di Mandralisca? L’antenato più lontano era Mario Piraino, originario di Castelbuono, che acquistò la baronia di Mandralisca ( il feudo Mandralisca era di Gangi ), la cui famiglia, all’inizio del ‘700, si trasferì definitivamente a Cefalù, città che diede i natali al barone. Come dire: siamo legati dal filo della storia, un legame saldo che unisce Cefalù, Castelbuono e le Madonie.

Ma non è solo la storia a fare da trait d’union. C’è, ad esempio, anche un legame mitologico:  il cantore – pastore Dafni (a cui viene dato nel libro ampio risalto, con un bel contributo di Domenico Portera), che una suggestiva leggenda ce lo tramanda trasformato nell’immensa rupe di Cefalù, si vuole provenisse dai monti  Nebrodi  o dalle Madonie. C’è, ancora, un legame geologico: il fresco corso d’acqua che si versa a Presidiana, attraversando la Rocca, scende a valle dalle alte Madonie, da Pizzo Carbonara. Gli esempi potrebbero continuare per molto, ma è ora di avviarsi  alla conclusione  rinnovando al dott. Ilardo il mio più vivo apprezzamento per aver donato, con grande spirito di liberalità, alla sua città e  alle Madonie, un’opera di così alto profilo culturale e spirituale che, ne sono certo, resterà per gli anni a venire punto e modello di riferimento e di stimolo per quanti vorranno approfondire gli studi e le ricerche su Cefalù e sulla sua icona naturale, quella “eccelsa rupe” che dà alla città il nome e la forma».

Ha concluso, infine, i lavori l’autore:

« (…) Sono sentimentalmente legato a Castelbuono, dove ho trascorso alcuni anni della mia vita professionale, tra il 1976 e il 1977, nella qualità di Segretario Generale di questo Comune. Anni brevi, ma vissuti intensamente, che mi hanno aiutato a crescere non solo professionalmente, ma anche, e soprattutto, umanamente  (…).

Ho avuto modo, in quegli anni felici, di sperimentare il proverbiale e radicato senso di identità che è dei Castelbuonesi, anzi – e lo dico senza piaggeria – che è solo dei Castelbuonesi. Per via della mia professione ho girovagato per diversi Comuni, tanto in Italia, che in Sicilia, ma non ho mai trovato, come in questo luogo, quel calore umano, quella vicinanza, quella vivacità intellettuale, quella fraternitas che ti arricchisce dentro e ti segna l’intera esistenza. Viene spontaneo ripetere: «Al piano vada chi vuole, noi restiamo in montagna».

Un affettuoso ringraziamento avverto il bisogno di rivolgere ai due relatori, l’avv. Mario Lupo, direttore de “Le Madonie”, il più autorevole foglio del comprensorio madonita, e il prof. Angelo Ciolino, già sindaco di Castelbuono e, oggi, componente del consiglio di amministrazione della Biblioteca comunale, non solo per la qualità dei loro interventi, lucidi, puntuali e fin troppo benevoli nei miei confronti, ma anche perché si sono sobbarcati ad un gravoso sacrificio, quello di leggere e studiare un libro di ben 700 pagine, frutto di un impeto di follia senile. A loro va tutta la mia riconoscenza per le fatiche spese.

In effetti, la ponderosità del volume ha una sua ragion d’essere e mi offre lo spunto per accennare alla quaestio relativa a quell’enigmatico edificio megalitico che sorge sulla Rocca di Cefalù, comunemente noto come Tempio di Diana, il monumento di più forte impatto emotivo sull’immaginario collettivo, unico nel suo genere in Sicilia e, ancora oggi, di «dubbia interpretazione e di contrastante cronologia».

È un edificio che, da sempre, ha esercitato sugli studiosi e sui visitatori un fascino particolare, forse anche perché avvolto da un alone di magico e arcaico mistero. Da giovane scout prima - alla ricerca di qualche antica moneta o di qualche coccio interrato - da adulto dopo, quel monumento non ha mai smesso di calamitare la mia attenzione, di stimolare e sfidare la mia curiosità: A cosa serviva? Chi lo aveva costruito? A quando risaliva? E la cisterna ad esso annessa celava, in realtà, un’altra e ben più antica funzione?

Secondo gli studiosi più accreditati, l’edificio sarebbe stato costruito tra il VI e il IV secolo a.C., su una «pianta inconsueta e irregolare», posato sulla roccia seguendo «il suo naturale andamento ascendente», senza alcuna preparazione del piano di posa su cui impostare le fondamenta e lo stereobate: ne è venuto fuori un «edificio rudimentale, informe, di struttura irregolarissima», che si vorrebbe, però, far risalire ad età classica, a quell’età che, in realtà, è stata portatrice degli ideali e dei valori estetici della compostezza, della misura, dell’armonia, della perfezione formale.

Mi sono, allora, chiesto: in base a quali criteri e cognizioni gli artefici di quell’opera - che si vuole fossero Greci - abbiano potuto impostare una struttura di tale fattezza su una pianta tipologicamente a loro sconosciuta, assolutamente estranea alla loro sfera culturale e così lontana dal loro senso artistico? Mi sono, cioè, chiesto, forse ingenuamente, in che modo si potesse mai conciliare la sublimità dell’architettura greca, che aspirava al massimo della perfezione formale, con la pochezza di quella megalitica, manifestamente rozza, rudimentale e irregolare. E, tutto ciò, quando già sin dalla metà del VI secolo a.C., il genio artistico e architettonico dei Greci aveva dato in Sicilia il meglio di sé, con  la magnificenza e lo splendore dei templi di Selinunte, Agrigento, Siracusa e Segesta.

Da qui è nato il bisogno di ampliare il campo di indagine, osando scrutare nuovi e più ampi orizzonti, relazionando e comparando culture, stili e ambienti diversi, nel tentativo di individuare un qualche, sia pur flebile, elemento di corrispondenza o di affinità, indirizzando lo sguardo non solo alla Sicilia, con i suoi primi abitatori e le sue stazioni preistoriche, ma anche a quelle terre e a quelle genti che attorno ad essa gravitavano (dalle isole di Malta e Gozo, alle Baleari, alla Sardegna, a Pantelleria, alle Egadi, ad Ustica, all’arcipelago delle Eolie) e spingendomi ancora più il là, laddove la civiltà trovò i suoi natali, cioè nell’antico Vicino Oriente, calandomi in un mondo antico quanto l’uomo e, apparentemente, a noi lontano.

Ho conosciuto, strada facendo, popoli fra i più antichi della Terra, provenienti da aree geografiche tanto vaste quanto diverse, con diversi stili di vita, con diverse pratiche religiose, con diverse tecniche e tipologie costruttive (Sumeri, Accadi, Amorriti, Babilonesi, Assiri, Eblaiti, Ittiti, ecc.), che mi hanno sollecitato a ripercorrere le principali tappe evolutive delle loro fiorenti civiltà, a far tempo dal VI millennio a.C.: dal nomadismo alla vita stanziale, all’agricoltura, alla costruzione delle prime città, allo sviluppo del commercio, all’intensificarsi ed intrecciarsi dei traffici marittimi. Mi sono avventurato lungo le tre grandi direttrici carovaniere che dal Golfo persico conducevano ai floridi porti della costa orientale del Mediterraneo: un pullulare di  intraprendenti mercanti che trasportavano derrate, prodotti dell’artigianato, stoffe variopinte, tessuti pregiati, manufatti vari, ma anche idee, sentimenti, valori etici, politici e religiosi, tecniche costruttive nuove, invenzioni e scoperte sensazionali come la scrittura, il tornio da vasaio, il sistema bicamerale, ecc. Un patrimonio culturale immensurabile, che, una volta sbarcato sulle coste orientali del Mediterraneo, finì con l’innescare un proficuo processo di contaminazione culturale che coinvolse le civiltà del bacino dell’Egeo: le Cicladi, Rodi, Creta, Cipro, l’Egitto, l’Anatolia, grazie anche ai fermenti culturali e tecnologici del Vicino Oriente, toccarono livelli di civiltà elevatissimi, i cui portati, a loro volta, si incanalarono lungo le sperimentate rotte marittime del Mediterraneo centrale e occidentale.

Le tre principali rotte del Mediterraneo, quella che costeggiava le sponde settentrionali del continente africano; quella centrale d’alto mare che, da Pilo, conduceva alle coste orientali della Sicilia; quella che si dirigeva, a nord, verso i lidi della Magna Grecia, confluivano tutte in direzione dell’arcipelago delle Eolie, alla ricerca della preziosa ossidiana prima e quale punto di snodo, dopo, verso le coste meridionali della Francia e dell’Iberia alla ricerca dello stagno. Nel prosieguo di questo tragitto, lungo le rive del Mediterraneo occidentale, pare probabile che sia stata battuta anche la rotta che da Capo Peloro si dirigeva verso Capo Gallo, a ridosso della costa settentrionale della Sicilia.

Una via di mare nel bel mezzo della quale svettava, all’orizzonte, superba, proprio l’eccelsa rupe di Cefalù, facile a vedersi, difficile a non scorgersi,  con le sue accoglienti rade e le sue fresche acque, protesa sul mare come ad abbracciare quegli arditi e audaci naviganti.

«Le pietre – scriveva Sabatino Moscati – di per sé parlano poco, ma cominciano a parlare quando vengono datate, messe in relazione con ambienti e fatti già noti, illustrate nei mutamenti che recano alle conoscenze abituali». Ed è quello che, in punta di piedi, ho cercato di fare per individuare le matrici che sollecitarono la germinazione architettonica dell’edificio megalitico della Rocca, che, secondo il mio modesto argomentare, non può non avere risentito delle influenze e degli stimoli culturali delle civiltà del  bacino dell’Egeo.

Non sta a me dire se sono riuscito con questo lavoro, che si trascina dietro non pochi limiti, ad apportare un contributo scientifico alla conoscenza della storia plurisecolare della mia Città. D’altronde, come più volte ho avuto modo di ribadire, io non sono uno storico, né un archeologo e nemmeno un esperto conoscitore di cose antiche, né è stata mia intenzione invadere un campo d’indagine che non è il mio. Epperò, l’amore che si  nutre per la propria Città, se autentico, può svelare orizzonti che gli occhi della sola ragione neanche intravedono … »

I saluti  portati dal vice sindaco del Comune di Cefalù,  dott. Salvatore Curcio

  

Il pubblico  intervenuto alla manifestazione

A breve dirò anche della presentazione del libro tenutasi presso il Centro Sociale di Isnello il 14 dicembre u.s., che ha visto come qualificato e apprezzato relatore il prof. Giuseppe Riggio, già sindaco di Cefalù e preside del locale Liceo Mandralisca.

Il libro, per chi fosse interessato, è reperibile presso la libreria Misuraca di Cefalù.

                                                                                                   Italo Piazza

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