Un siciliano illuminato

ritratto di Angelo Sciortino

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Per l'anniversario della sua morte, niente è meglio, per ricordarlo e commemorarlo come merita, di questo articolo di Leonardo Sciascia apparso sul Corriere della Sera nell'ottobre del 1983. Ventisei anni fa, ma sembra scritto oggi!

(…) Bisogna ai giudici concedere qualcosa, almeno nel senso di capirli: esercitano una professione che per definizione deve stare al di sopra, e quindi in condizione di isolamento; una professione difficile e di quotidiana inquietudine. E sarebbero inibiti a esercitarla se non riuscissero a respingere ai margini, in un marginale baluginio della coscienza, la preoccupazione dell’errore. Hanno bisogno anzi, singolarmente e ancor più in quanto corporazione, di credere impossibile l’errore.

Poiché la società li ha delegati a punire la violenza con la violenza (la violenza di condannare un uomo alla perdita della libertà, senza dire di dove lo si può ancora condannare alla perdita della vita), hanno bisogno di sentirsi sicuri, confortati, se non da un continuo e generale consenso, da una generale indifferenza e comunque da un’assenza di critica sul loro operare. Da ciò l’afflato corporativo, per cui soltanto da loro e tra loro può farsi distinzione tra i migliori e i peggiori, e l’irritabilità a ogni critica che venga dal di fuori.

E li si può capire, ripeto: ma al tempo stesso senza cedere di vigilare su questa loro credenza o presunzione e di combatterla quando con più evidenza si manifesta. La delega di giudicare non è stata data a tutti i giudici e a ciascuno una volta per tutte; la società, l’opinione pubblica, ha il diritto di vigilanza e di critica su ogni caso giudiziario che presenta oscurità e contraddizioni e di far distinzione tra i giudici migliori e i giudici peggiori; e la loro professionalità (parola oggi abusata: e forse per il fatto che in ogni branca e categoria la si sente venir meno) non è così assoluta e invalicabile da non consentire che l’occhio estraneo o, se si preferisce, profano, vi penetri e vi si soffermi. E anzi: nessuno, anche se sprovvisto di ogni supporto diciamo tecnico, si può considerare estraneo o profano riguardo all’amministrazione della giustizia.

Presupponendo la scienza del cuore umano alla pari di quella dei codici, e magari in maggior misura quella del cuore umano, l’amministrazione della giustizia riceverebbe anzi danno da una eccessiva professionalità. Insomma, quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve pur rassegnarsi al paradosso – doloroso per quanto sia – che non si può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto. Alla somma delle proprie inquietudini, bisogna preventivare l’aggiunta di quelle che verranno dall’attenzione che l’opinione pubblica dedica a certi casi. E questo vale per ogni latitudine, per qualsiasi paese in cui i tribunali non siano stati mutati in are.

Ma appunto in Italia si manifesta una certa tendenza a tal mutamento. E forse è da dire, meno foscolianamente, in altari: ricordando quella proverbiale espressione per cui lo scoprirli è operazione di verità (e lo scoprire altari e altarini dovrebbe essere funzione assidua di coloro che hanno a che fare con la carta stampata e con altri mezzi che comunicano e formano opinione). L’amministrazione della giustizia, insomma, viene assumendo un che di ieratico, di religioso, di imperscrutabile – e con conseguenti punte di fanatismo.

Elementi che hanno contribuito a questo stato d’animo, che ormai circola come sangue nel corpo della Magistratura; a questa situazione di irresponsabilità, di privilegio, di refrattarietà e insofferenza a ogni critica in cui pare la Magistratura tenda ad arroccarsi, sono stati – a dirla sommariamente – questi: l’ordinamento di assoluta indipendenza che si è voluto – giustamente – dare al potere giudiziario e in cui però, di fatto, è insorta la dipendenza partitocratica; il vuoto che è venuto in sé promuovendo il potere esecutivo e che è stato come un invito (e una necessità) a che il potere giudiziario lo riempisse; la confusione in cui il potere legislativo si è abbattuto. (…)