Dante Alighieri

Ritratto di Salvatore Culotta

5 Maggio 2015, 11:59 - Salvatore Culotta   [suoi interventi e commenti]

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Ricorrendo quest’anno il 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri e non essendo al corrente di una qualche manifestazione in programma a Cefalù, mi sembra giusto ricordarlo, almeno su queste pagine, attraverso un saggio di un  “ Cefalutano fuori le mura”, il Prof. Steno Vazzana, realizzando così un sia pur  labile legame tra Cefalù e Dante.

 
Poscia più che il dolor potè il digiuno ( Inf. XXXIII 75 )
Quando lessi nel commento scartazziniano il compianto sincero del maestro e quello non meno perturbante del Landino sui poveri spiriti stravaganti, che sono giunti al punto di interpretare il verso nel feroce modo, che fa arricciare loro il naso, e quando mi vidi poi cadere addosso, stuzzicato dal suo invito a rifare la storia dell’ argomento (Sforza: «Dante e i Pisani» in Propugnatore Vol. I pp. 663 e segg.), il peso di tante autorità, mi son sentito diventare piccolo piccolo e schiacciato penosamente dal dubbio che anch' io sia uno di quegli sventurati pensieri stravolti. Perché a me da ragazzo pareva brutto il fatto che Ugolino avesse potuto addentare carne umana e filiale per di più, sentendomi quasi guastar dentro quella umana immagine di dolore, quasi sacra, per cui non v' è chi non ami lo sventurato conte, abbia pure i suoi torti. Ed ora invece, più maturo o più cattivo che sia, l' antica interpretazione di Jacopo della Lana, sostenuta poi nel periodo aureo della questione dal Niccolini è dal Carmignani, non mi pare né azzardata né perversa, anzi m'è proprio capitato di convincermi che Dante abbia significato che Ugolino nell'estremo impeto bestiale, spento quasi ogni lume di intelligenza e soverchiato il dolore, abbia messo i denti addosso ai corpi morti.
La cosa non potrebbe uscir fuor di questione neppure se ci rimanesse una dichiarazione contemporanea di un testimonio oculare categoricamente affermante che i corpi si rinvennero con tale o tal segno o immacolati contro tale sospetto; perché quello che interessa non è la verità storica del fatto, ma che Dante abbia potuto dar fede alla voce. E che dopo la morte di Ugolino sia corsa voce per la Toscana che il conte abbia mangiato i figli per fame è attestato in una antica cronaca, pubblicata dal Villari «I primi due secoli della storia di Firenze » e lo ha anche riprovato il Gargallo. Resta indubbio pertanto che Dante giovane abbia potuto cogliere tal voce, sia pure senza fondamento. A noi interessa ora vedere se veramente, avendola potuto sentire, l' ha accolta. E qui non c'è altra via, mancandoci ogni dichiarazione riguardante il poeta, che metterci sulla scorta dell'interpretazione del verso di Dante. E veramente bisogna eliminare la storicità della questione, come estranea all'interpretazione del testo ed affidarci esclusivamente ad esso, perché esso solo contiene la verità e solo capace di rivelarcela.
 
 
Interpretare significa trovare il significato di ogni parola confacente necessariamente alla sintesi psicologica rappresentata dall'atteggiamento del personaggio, che è la traduzione nell' eternità, secondo la grande legge di inversione morale intuita da Dante, del peccato, ossia violenza alla divina legge, consumato nella vita. Ora Ugolino è trovato dal poeta nell'atto di divorare il teschio dell’ arcivescovo; richiesto perché mostri odio per sì bestial segno sopra di lui, risponde : « Or ti dirò perch'io tal son vicino» e comincia la narrazione. Quindi l'episodio è la spiegazione della ragione per cui Ugolino è presso Ruggeri rodendoselo.
E qui viene da chiedersi : È proprio necessario che R. e U. stiano vicini ? Non potevano l'uno e l'altro, nell’Antenora e nella Tolomea, soffrire lontani la loro dannazione, e U. essere un dolore solitario senza sfogo ? Perché questo accoppiamento proprio al limite delle due zone, con evidente violenza alla distinzione di esse zone dell'ultimo cerchio? Ma non v' è chi non vegga che Dante ha realizzato in quest'altro modo un momento drammaticamente più elevato, anzi il più drammaticamente elevato della Commedia. U. impone la grandiosità della sua sofferenza elevandola di là dall'inferno stesso, perché, ove tutti giacciono nella immobilità gelata dello spirito, a lui solo è concessa una vita, un odio, una passione, che porta nel mondo dell'eternità la sua umanità esulcerata, che rinnova questa piaga di uomo e di padre, un dolore senza pari, eternamente uguale, onde bene può riprendere lo stupore di Dante e gridargli « E se non piangi, di che piagner suoli?» Di fronte a questo terribile sentimento di dolore paterno non è che il cielo stesso non si pieghi - come dinanzi all’amorosogrido di Dante verso Francesca permettendo un riposo della pena dei due cognati - e il cielo getta Ruggeri sotto i denti del conte, a questo concedendo una giusta vendetta, che gli appaghi insieme e gli rinnovi il suo dolore per tutta l’eternità - mezzo e fine in questo della vendetta di Dio - all'altro crescendo la dannazione con un tormento che gli si aggiunge.
Giustificata quindi e necessaria   la vicinanza tormentosa dei  due nella ghiaccia   infernale.    Ma perché   proprio   quel mangiarsi il teschio, «come pan per fame si maduca”? Nessuno vorrà dire che l'atto sia soltanto espressione di quel disdegno, che portò Tideo a fare lo stesso su Melanippo,    perché   questa   osservazione viene dopo quella,  che esprime ciò  che ha colpito subito il poeta e che è quindi più   essenziale e rappresentativa   dell’ atteggiamento  spirituale   di   Ugolino. D' altro canto ci si domanda :  se la vicinanza dei due dannati è,  come  abbiamo dimostrato,  voluta da una necessaria attuazione  della vendetta di Dio, che colpisce l'uno e l'altro dannato per mezzo dell'uno e dell'altro, come non vedere nell'atto essenziale di questa vendetta, nel rosicare,  la stessa necessità,  per cui esso non è che la traduzione  in eterno del peccato e del dolore,  del peccato di Ruggeri e del dolore di Ugolino ?
 
è così anche per Pier delle Vigne , per il quale nella privazione del corpo si continua il peccato e il dolore ? Né basta dire che la necessità del manducare è nel fatto di sfogare qui rabbiosamente sul responsabile quella privazione che condusse Ugolino e i suoi a morte, giustificando anche che la posizione dei due dannati fuoruscenti dalla ghiaccia colle teste permette ad Ugolino l’uso della sola bocca, perché qui non sopravvive il sentimento della fame, come è nella sesta cornice del Purgatorio, ma c'è sì il ricordo, per cui si eterna per Ugolino il dolore più grande della sua vita peccaminosa, dalla quale Dante non può prescindere nella creazione del suo mondo oltramondano.. E quindi questo manducare non è che la continuazione di una dannazione cominciata nel momento della morte, la continuazione della morte in peccato quindi, per cui Ugolino continuerà nel rosicare, tradotto, per la legge di giustizia del contrapasso, sullo spirito di Ruggeri, il dolore culminante della sua vita di traditore, non questa volta il tradimento stesso, come Pier delle Vigne continua nella prigionia della pianta il momento doloroso della sua vita di suicida, il suicidio stesso.
Una necessaria intima corrispondenza quindi tra delitto e castigo: il castigo è lo stesso delitto,  mutandosi nella necessaria  inversione morale,  che è la legge dell'inferno,  per l'uno e per l'altro peccatore,   unico   castigo, per cui Ruggeri soffre quello che ha fatto soffrire e Ugolino fa soffrire  quello che sofferse   nella sua figliolanza con proprio atto, continuando necessariamente insieme per sé il tormento di quell'atto medesimo.
La validità di questa interpretazione può essere provata da una analisi delle tesi già sostenute in contrario, se è possibile metterne in evidenza l' erroneità o l’ insufficienza o una verità non in contrasto colla nostra. E prima di tutto questa nulla toglie di quanto veramente poetico è stato interpretato nel verso, ma ha, senza dubbio, il merito di vedervi più addentro, mettendo meglio in chiaro la miracolosa sintesi poetica di un momento supremamente drammatico, quale Dante lo realizza in un mondo ultraterreno. Lo Steiner commenta : « Sono due forze che congiurano a farlo morire, una morale una fisica. » Tanto gli basta a rigettare la malvagia tesi. Io gli dico che tanto non può rappresentarne una critica, perché questo che egli vede non v' è chi non lo veda. Egli è nel vero, ma insufficientemente. È necessario vedere agire queste due forze; senza limitarsi a vicenda, ma congiungendosi in unica espressione dolorosa, che non è più della carne e meno dello spirito, ma è dell'una e dell'altra. Ma egli si ferma e noi invece vediamo esaltate queste due forze sino all'esasperazione di essa carne e di esso spirito, rimanendo la morte un momento tremendo di disperazione e di cecità.
Il De Sanctis nella folla dei sentimenti pullulanti dal verso coi « forse » che sono così poetici, non mancò di vedere un lume di verità. « Forse, mentre la natura spinge i denti nelle misere carni, in quest'ultimo delirio della fame e della vendetta quelle sono nella sua immaginazione le carni del suo nemico e Dante ha realizzato il delirio nell'inferno, perpetuando quell'ultimo atto. » Né gli altri « forse » pugnano con questo, perché la confessione della volontà di morir di dolore è esplicita : « Ahi, dura terra perché non t'apristi?» e l'impossibilità del chiamare brancolando cieco è già la morte.
Gli altri commentatori, quando non si tratti del Gargallo o di Giuseppe Giusti, che se ne escono nell'ingenua asserzione che Dante abbia fatto apposta a concludere 1' episodio con tal verso, appunto per non far capire se Ugolino abbia o no morso, che sarebbe come dire proprio per il gusto di vederci sbizzarrire, quasi che poi la poesia fosse un gioco, gli altri si perdono o dietro la ricerca di cronaca o dietro i falsi concetti di arte. Il Pindemonte, il Lampredi, il Monti confessano il ribrezzo per l'orribile, il Rosini nega questo in nome del sublime, qualcuno ragiona perfino colla Medicina alla mano della possibilità o meno di masticare e deglutire dopo otto giorni di digiuno. Più seri i critici più recenti cercano un responso dentro i limiti dell'episodio, e però tutti si adagiano nella negazione dell'atto spaventoso.
Ma che cosa ci dice il Casini coll'affermare che questo è contro la ragione della natura e della storia ? E il Graber dicendo che contrasterebbe col carattere che Dante ha impresso in Ugolino ? Afferma quest'ultimo: «Qui, dicendoci che il digiuno fu più forte, vuol solo rappresentare l’estrema lotta tra le inesorabili leggi della materia e lo sforzo sovrumano dello spirito. »
 
 
Sappiamo bene che l’ atto è contro la ragione della natura e contrasta al carattere di amorosa paternità, che Dante ha rivelato in Ugolino. Ma Ugolino è lui finché fu in lui la coscienza. Quando questa viene meno coll’ abbandono delle ultime forze, che altro è quell'uomo, se non un barlume di istinto tutto dolore, che altro lo spirito, tutto al più se non un delirio confuso di fame e vendetta, come pensò F. De Sanctis ? Altro che sforzo in questo momento !
Per A. Momigliano «L’ultimo verso non è più né descrizione né pittura, ma costatazione insieme rassegnata e disperata. » Per quanto nel suo recente commento, esclusivamente estetico, egli non voglia interessarsi di controversie, pure qui era necessario dichiararsi. Senza dubbio, nessuna pittura ma un lampo: tutto è un orrendo sottinteso, che si chiarifica solo qui, nella ghiaccia infernale, fissato il momento estremo della coscienza e della morte in questa positiva eterna. Non si può, come lui continua a fare, separare la morte dalla dannazione. E dov'è poi questa rassegnazione, quando mai v' è stata in vita dal momento del mal sogno e qui nell' inferno ? Non esiste se non la disperazione eternamente atroce.
Il bello è che tutti questi critici, non gli ultimi in verità, se ne vengono con «tempo inutilmente perduto ». Certo è perduto, se si va a cercare se il fatto fu vero o no, o se Ugolino poteva deglutire. Ma non è perduto per quelli che, come noi, cercano l' intima verità del momento drammatico, che non può essere che una e ben definita. E la nostra tesi trova innegabilmente una più violenta drammaticità, una necessaria corrispondenza della vita nella eternità, secondo la grande intuizione dantesca, trova in sostanza un potente sottinteso in¬sieme alla più esasperata rivelazione del¬la Commedia, che è di una sofferenza al limite delle possibilità espressive dell'ar¬te e della poesia E questo non è che riconoscere una maggiore bellezza e grandezza della poesia di Dante. Gli ultimi critici, adagiatisi tutti nelle interpretazioni che negano questa violenza e questo sottinteso, hanno la pretesa di difendere l’umanità di Ugolino e invece la limitano; si lasciano, senza saperlo, trasportare da un sentimento umanitario, forse quello stesso che il buon Pindemonte confessava candidamente, che è idolum specus nella interpretazione della poesia come della vita.
Steno Vazzana,  su : Kefa n° 2 – Bollettino della Società Arte Cultura Sport – Cefalù, 1947
 
 
il Prof. Steno Vazzana riceve il Premio Mandralisca dal Presidente della Fondazione Manlio Peri
 
nota: Le illustrazioni sono di Gustave Dorè, l'immagine di S. Vazzana di S. Culotta
 

Commenti

Caro Salvatore, non soltanto il merito di ricordare un grande Italiano, ma anche il merito di averlo fatto con le parole di un grande Cefalutano.

Che dirti, se non grazie!