Reddito di cittadinanza

Ritratto di Angelo Sciortino

28 Dicembre 2015, 12:47 - Angelo Sciortino   [suoi interventi e commenti]

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Il reddito di cittadinanza è da un po' di tempo uno strano fantasma, che si aggira per l'Italia e per l'Europa e al quale quasi tutte le forze politiche, da destra alla sinistra, per finire a quelle cosiddette antisistema, affidano la soluzione dell'attuale crisi economica e lavorativa. Persino Juncker, presidente dell'eurogruppo, ha abbracciato la fede in questo fantasma.

Ma è vero che questo fantasma è la vera soluzione dell'annoso problema della crisi e non piuttosto una moda, con la quale la politica tenta d'ingannare i cittadini? Vediamo di esaminare senza infingimenti la proposta e gli scopi che ci si prefigge di raggiungere, per capire se essa è idonea a raggiungerli.

Le preoccupazioni principali sarebbero disoccupazione e condizioni di vita dei lavoratori. Preciso subito che il reddito di cittadinanza, così come è proposto in Italia, sembra ridursi a un trasferimento, da parte dello Stato, in favore di quei lavoratori, che non raggiungono il minimo fissato; ipotizzo che si tratti di semplici trasferimenti monetari. Il costo del salario minimo verrebbe scaricato sulle casse dello Stato. Tralasciando per un attimo gli effetti sulle finanze pubbliche, concentriamoci sul mercato del lavoro: che cosa succede? L’effetto sarebbe che i lavoratori già occupati diventerebbero meno convenienti, avvantaggiando coloro che sono senza lavoro. Naturalmente le conseguenze specifiche dipendono molto dai vincoli contrattuali cui sono sottoposti gli operatori economici del mercato.

"L’imprenditore potrebbe avvantaggiarsi di manodopera a basso costo, in questo modo il risultato sarebbe che nella generalità dell’economia i lavoratori avranno un più basso potere contrattuale, facendo convergere i salari verso il basso. E’ probabile che questa politica sia di aiuto ai disoccupati e agli imprenditori nel breve periodo, ma svantaggerebbe chi occupato lo è già. Inutile aggiungere che tale politica non può essere sostenuta nel lungo periodo, in quanto avrebbe degli effetti inevitabili in tema di finanza pubblica, generando deficit e tassazione crescente. Inoltre, la certezza di un minimo salariale o di un reddito di cittadinanza inciderebbe sulla produttività del lavoratore, demotivando chi è al di sopra di tale soglia, in quanto avrebbe la certezza comunque di un minimo garantito dalle casse pubbliche, inducendolo a fare meno. La proposta del salario minimo, visti i presupposti e le conseguenze che potrebbe generare, non sembra risolutiva né per le condizioni dei lavoratori né per la disoccupazione in generale. E’ strano, però, che di fronte a questo problema sfugga il sistema di funzionamento economico del mercato del lavoro e quindi l’accordo tra lavoratore ed imprenditore. L’imprenditore assume il lavoratore per garantire la continuità della produzione e il suo costo deve essere compensato dal margine raggiunto grazie alla vendita del prodotto al prezzo richiesto dal mercato; viceversa il lavoratore accetta un’offerta che gli permette di massimizzare la sua utilità marginale. Quando questo incontro non si verifica, l’unica soluzione che possa intraprendere lo Stato è : non fare nulla. Un qualsiasi intervento da parte dello stato modifica l’utilità marginale degli operatori economici, consumatori compresi, producendo ulteriori effetti dai risultati quantomeno dubbi. E’ chiaro che in un ambiente iper-regolamentato un buon modo per aiutare il mercato è eliminare i vincoli già esistenti: gli operatori economici sono assolutamente in grado di scegliere il meglio per sé e questo li aiuterebbe.

La storia, però, non finisce qui, perché l’iniziativa dello stato produce conseguenze cui ho già accennato in precedenza. L’effetto redistributivo, sia che venga indotto attraverso un costo sull’imprenditore sia che si produca sulle casse pubbliche, genera un impoverimento nell’economia. Perché avviene questo? Nel primo caso l’imprenditore sostiene costi su lavoratori che evidentemente erano fuori mercato, costringendolo a margini più esigui; senza considerare il fatto che quasi certamente la pressione regolamentare potrebbe indurre l’imprenditore ad aumentare il prezzo del bene oppure a licenziare lavoratori più costosi. Abbiamo già visto che gli effetti a lungo termine sono che il potere d’acquisto dei lavoratori andranno peggiorando inducendoli a trovare altre forme alternative di guadagno, come lavoro sommerso o microcriminalità. Nel secondo caso, invece, l’espansione del deficit trasferisce indirettamente risorse da lavoratori già occupati presumibilmente scelti dall’imprenditore a lavoratori che non hanno trovato occupazione generando un prevedibile calo di produttività e redditi oltre che, nel lungo periodo, un aumento della tassazione. L’intervento dello stato ancora una volta produce distorsioni maggiori di quelle che c’erano già e non risolve il problema. In tutto ciò sfugge anche l’effetto “educativo” di questa decisione. L’unico soggetto che si avvantaggia nel breve periodo è il disoccupato, che nel momento in cui entra finalmente nel mondo del lavoro si troverà ad affrontare quei vincoli che bloccano le persone già occupate, il vantaggio del beneficio nel breve si rivela una trappola nel lungo. Vincolato dai lacci legislativi avrà una magra consolazione: quella di avere uno stipendio, che prima o poi non sarà più sufficiente a mantenerlo, costringendolo a fare quello che avrebbe dovuto fare dall’inizio: promuovere e coltivare le proprie capacità nel miglior modo possibile per avere mercato e trovare un imprenditore disposto ad assumerlo, con la differenza che adesso avrà un vincolo in più e costi crescenti per gli imprenditori; accettare un favore, alla lunga diviene una vendita della propria libertà."