Il messaggio della lingua siciliana.

Ritratto di Angelo Sciortino

31 Agosto 2016, 17:19 - Angelo Sciortino   [suoi interventi e commenti]

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Esattamente cinquant’anni fa, nel 1966 (io avevo vent'anni), usciva da Einaudi il primo volume, dedicato alla Fonetica, della Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti di Gerhard Rohlfs.

Fra le teorie più originali elaborate da Rohlfs vi è quella sul rapporto dei dialetti moderni con l’antichità della Magna Grecia. In sostanza, Rohlfs era giunto alla convinzione che le isole linguistiche greche ancora esistenti nell’Italia meridionale non fossero – come ancor oggi, purtroppo, molti continuano a ritenere – il frutto di puntuali migrazioni d’età medievale o moderna, ma il residuo estremo delle lingue dell’antica Magna Grecia, cioè la traccia vivente di un rapporto culturale ininterrotto tra mondo classico e Italia attuale.

In verità Rohlfs lo avevo conosciuto per un capitolo sull'Atlante linguistico italo-svizzero, dove egli si era occupato del Mezzogiorno e della Sicilia.

Questo fatto mi inorgogliva. Nessuna regione italiana potrà mai dirsi erede della cultura greca tanto quanto la Sicilia. Rohlfs dimostrava che tale eredità non era fatta soltanto dalle rovine a Siracusa, ad Agrigento e così via, ma anche dal suo dialetto.

Il siciliano ci fa riflettere.

Da anni cerco in molti termini siciliani la loro derivazione dalle lingue dei popoli, che in Sicilia sono vissuti, lasciandovi nel suo dialetto un segno.

Ripeterò spesso questa fatica di riportarne alcuni, perché ritengo il nostro dialetto degno di studio e, se conosciuto bene, meritevole di paragonarsi allo stesso italiano, quello vero e non quello della televisione e degli SMS; quello di Dante e di Boccaccio e non dei Milanesi.
Ecco i primi due termini:

Annacàri (cullare, dondolare) [greco: naka = culla]

Antùra (poco fa) [latino: ante horam= un'ora fa]

Noi Siciliani siamo unici! Lo dimostrano molti nostri vocaboli e modi di dire.
Per esempio, se a Milano o in qualsiasi altra Regione italiana alcune ragazze passeggiano, chiacchierando fra loro, in Sicilia esse invece “cusciuliano”; altrove un uomo passeggia, un siciliano, invece, va “peri peri”; un siciliano non si giudica forte e coraggioso, ma “sa senti sucata”; in altre Regioni accade talvolta che un uomo si metta nei guai, qui invece “si cunsuma”.
Quello che più lo distingue da tutti gli altri esseri umani, però, è il suo pene e il rapporto di questo con la vagina. Questa, infatti, dona la parola al membro maschile. Eccone due esempi: 1) "u sticchiu è bellu e a minchia fa burddellu" (la vagina è bella e il pene fa molto rumore); 2) "lu sticchiu è duci e a minchia ietta vuci" (la vagina è dolce e il pene urla).

E adesso tenetevi forte, perché i due termini siciliani, che una persona educata usa poco, hanno anch'essi una derivazione classica.

Il primo, quello di cui conosciamo chiaramente il significato, è “minchia”, che indica il pene e che deriva dal latino “mingere”, nel significato di mungere o spremere, per far uscire il liquido.
Dell'altro bisogna ammettere che esso viene usato nella più totale ignoranza della sua origine, che è invece simile al primo.

Il termine “ammatula”=inutilmente deriva dal latino “mentula”=pene, organo sessuale maschile. Dire, quindi, che qualcuno parla “ammatula” equivale a dire che parla a “cazzo”, cioè senza sapere di che cosa parla, inutilmente.

Sarebbe interessante uno studio psicologico del perché in siciliano abbiamo termini che si riferiscono spesso alla forza virile e all'organo che la rappresenta. In mancanza di un tale studio, val la pena rifletterci su, per capire un poco del carattere maschilista del siciliano.
A voi la riflessione.

C'è da chiedersi perché un siciliano, anche da decenni emigrato, rimane sempre un siciliano.
E non rimane tale lui soltanto, ma si sentiranno tali anche i suoi eredi, che forse non hanno mai visto la Sicilia.

Una spiegazione forse c'è: quattordici dominazioni non hanno scalfito il carattere del siciliano. Ne hanno arricchito il vocabolario, le conoscenze scientifiche, arricchito la flora persino con piante esotiche, ma non ne hanno cambiato il carattere.

Lucio Dalla, nella sua canzone "Siciliano" così canta:
"La prua della barca taglia in due il mare
ma il mare si riunisce e rimane sempre uguale
e tra un greco, un normanno, un bizantino
io son rimasto comunque siciliano.
"

Per occupare il mio tempo continuo a scavare sulle notizie relative alla lingua siciliana.
Nel '700 vi fu l'infelice occasione del temporaneo incontro con gli Austriaci. Ecco il lascito(?).
Nel 1720 la Sicilia fu assegnata all'Impero austriaco. Essa rimase sotto il suo dominio fino al 1734, quando fu assegnata a Carlo III di Borbone, la cui dinastia fu scalzata nel 1860 con l'avventura garibaldina.
In quei 14 anni di dominio, gli Austriaci portarono via dalla Sicilia una gran quantità d'oro, impoverendola, ma lasciando in cambio i seguenti termini!

Siciliano Tedesco
Laparderi Hallabardier
Arrancari Rank
Sparagnari Sparen
Guastedda Wastel

 

Finora, a saltellare, ho riferito delle antiche influenze delle lingue antiche sul siciliano: greca-bizantina, latina, araba e normanna.

Non per nulla in Sicilia un tempo si parlavano tre lingue: la greca, la latina e l'araba.
Oggi vorrei ricordare di più moderne influenze.

Gli Inglesi hanno lasciato un ricordo della loro permanenza in Sicilia nel periodo napoleonico, influenzando anche la formazione del superlativo degli aggettivi (in Sicilia bellissimo si dice è veru bellu); fino ad arrivare ai recentissimi influssi americani come giobba per posto di lavoro, importati dai siciliani emigrati e poi tornati in patria.

Il francese moderno ha dato al linguaggio siciliano "lammuarru" per armadio, "buffetta" per tavolino, "tabbaré" per vassoio, "tirabusciò" per cavatappi, tutti termini legati al comfort della società abbiente, dal Settecento in poi.

Spero che qualche lettore attento voglia suggerirne altri.

Parlando della lingua siciliana urge una riflessione. Non esiste nei verbi siciliani il futuro! Si usa sempre il presente e quando si vuole dare al verbo il valore di futuro, si adopera un avverbio o una circonlocuzione. Per esempio, un siciliano non dirà mai “verrò”, ma “viegnu dumani”!
Questa mancanza del futuro non deve interpretarsi, però, come se il siciliano non avesse fede nel futuro, interpretando il famoso adagio “piensa a uoggi, a dumani piensa Diu” per convincersi che egli non è artefice del suo futuro, perché il siciliano il suo futuro lo vive sempre come un presente. Egli sa bene, infatti, che tale futuro sarà come lo prepara il suo presente, come gli suggerisce l'adagio “Cu primu nun pensa all'urtimu suspira.”

Ci siamo divertiti a cercare l'origine di alcuni termini siciliani e abbiamo scoperto che essi risalgono non soltanto alle dominazioni recenti, ma finanche alla Grecia e a Roma. Quindi, a oltre venticinque secoli addietro. Più di quelli dell'italiano e delle altre lingue europee.

Se è così, vediamo con quali termini il siciliano ha influito nell'arricchimento di quella italiana.

Abbuffarsi (mangiare fino a riempirsi). Propriamente vuol dire "gonfiarsi come un rospo"; infatti il rospo in siciliano è detto "buffa". Questo verbo è entrato nella lingua italiana nell'ottocento (le prime documentazioni portano all'ambiente dell'Accademia navale di Livorno), anche se nella VIII edizione dello "Zingarelli" (marzo 1959) non era ancora presente. Il termine è oramai diffusissimo e di uso comune su tutto il territorio italiano, assieme al sostantivo "abbuffata" (grande mangiata).
Carpetta (cartella per fogli e/o documenti). Questo termine, giunto probabilmente al siciliano nei secoli scorsi dallo spagnolo (carpeta), è passato all'italiano solo in tempi recenti.
Dammuso (abitazione in pietra con il tetto a volta). La parola dammùsu arriva al siciliano dall'arabo "dammus". Tale tipo di costruzione è tipico dell'isola di Pantelleria; con la scoperta dell'isola da parte del turismo italiano, la parola è pian piano penetrata nella lingua italiana.
Demanio (complesso dei beni inalienabili dello stato e degli enti pubblici territoriali e, per estensione, ufficio che sovrintende all’amministrazione di tali beni). Parola penetrata in Siciliano probabilmente attraverso i Normanni (ant. francese = demaine) e diffusasi in tutto il Meridione per poi passare all'italiano.

Picciotto (giovanotto, ragazzo). Iniziò la sua penetrazione nell'italiano con l'impresa dei Mille di Garibaldi (in una lettera del 24 giugno 1860 Ippolito Nievo scrive "vuol dire ragazzi e così noi chiamiamo quelli delle Squadre perché tra loro si chiamano così").