Ancora sulla lingua siciliana

Ritratto di Angelo Sciortino

9 Settembre 2016, 15:41 - Angelo Sciortino   [suoi interventi e commenti]

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Il poeta Ignazio Buttitta ci spiega in questa poesia il valore e l'importanza della propria lingua:

Un populu mittittinc’ a catina

spugghiàtilu
attuppatinc’ a vucca
è ancora libero
levatinc’ u travagghiu
u’ passaportu
a tavola 'unni mangia
u’ lettu unni dormi
è ancora ricco.
Un populu diventa poveru e servu
quannu 'nc’ arrobbanu 'a lingua adduttata d’i patri
è persu pe’ sempi
diventa poveru e servu
cuanno i paroli nun figghianu paroli
e si mangianu intra d’ iddi
mi n’ addugnu uora, mentre accordu a chitarra
du ddialettu ca perdi ‘na corda 'gni iuornu.

Non dovrebbe esserci bisogno della traduzione, ma...

Un popolo mettetegli la catena
spogliatelo
tappategli la bocca
è ancora libero
toglietegli il lavoro
il passaporto
la tavola dove mangia
il letto dove dorme
è ancora ricco.
Un popolo diventa povero e servo
quando gli rubano la lingua adottata dai padri
è perso per sempre
diventa povero e servo
quando le parole non partoriscono parole
e si mangiano fra loro
me ne accorgo ora, mentre accordo la chitarra
del dialetto, che perde una corda al giorno.

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Oggi mi piace ricordare la derivazione mitologica di alcuni toponimi siciliani. Innanzitutto quello che riguarda Messina, che al momento della sua fondazione nell'VIII secolo A.C. ebbe il nome di Zancle. Lo devo al mio amico Vincenzo Nastasi, che è originario di Messina.
Perché Zancle? La mitologia racconta di Urano, che aveva l'abitudine di uccidere i propri figli e di mangiarli. Crono, armato di uno “zanglon” gli tagliò i testicoli e il pene, per evitare che potesse avere altri figli, che avrebbero fatto la stessa fine macabra dei precedenti. Nella lotta tra Urano e Crono, a quest'ultimo cadde di mano lo “zanglon”, che finì nella località che ne assunse la forma e fu chiamata Zancle.

La mitologia ha dato il nome anche a Trapani. Il riferimento è sempre alla falce. Il mito racconta che Cerere, alla ricerca della figlia Proserpina, rapita da Plutone, re degli Inferi, andò in giro per tutta la Sicilia. Essendo dea delle messi, portava sempre legata al suo fianco la falce, detta in greco Δρεπάνι (drepani). Giunta in quella che oggi si chiama Trapani, spiccò un salto per raggiungere l'Africa. Nel saltare, però, le cadde la falce, che formò il porto a forma di falce, cioè Drepano, oggi Trapani.
Sono debitore di questi riferimenti al mio maestro degli ultimi due anni delle elementari: il maestro Cannici. Egli ci fece studiare la geografia della Sicilia con questi aneddoti mitologici, dov'era possibile. Ormai egli è morto da decenni, ma vive ancora nella mia memoria e alimenta sempre la mia gratitudine. Ricordarlo e farlo ricordare anche a chi non lo conobbe equivale a renderlo immortale. A prova che un uomo va ricordato non per quel che costruisce materialmente, ma per quel che costruisce nella sua interiorità e che può trasmettere agli altri, non impoverendosi, ma arricchendosi.

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Oggi spero di divertirvi con qualcosa di più recente rispetto al greco e al latino. Tento di farlo con l'arabo, cercando d'imbastire una specie di breve racconto in siciliano, mettendo tra parentesi in ogni termine siciliano quello arabo, dal quale deriva.

Duoppu a sciarra (sciarr), si ittò nta gebbia (jeb) pi lavarisi. Pu unn'affunnari, si purtò nu zuccu (suq) e ci truvò tanti babbaluci (babaluci) e si manciò. Quannu nisciu di nta gebbia affirrò a cassata (qashatah) e a taliò. Prima, però, pigghiò a giggiulena (giulgiulan) da burnia (bumiah) e l'uogghiu di nto cafisu (qafiz) e a cunzò pi essiri cchiù bona. Finalmente si potti manciari a cassata e poi u zibibbo (zbib). Tutti sti cuosi ci ficiuru mali e menz'ura duoppu u misiru nto tabutu (tabut).
Con l'arabo ho finito, non lo conosco quasi del tutto.

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Capisco che dovrei dedicare il mio tempo all'attività dell'Amministrazione comunale, allo scopo di tenere informati i cittadini, ma preferisco, per la mia serenità, dedicarmi ancora allo studio dei tanti termini siciliani, che spesso adoperiamo senza conoscerne l'etimologia e, quindi, il loro vero significato e di quale nostra storia sono testimonianza.

Mi sono chiesto spesso da dove deriva il termine “cumpari”, diventato in italiano “compare”. Non è difficile risalire alla sua origine: esso deriva dal latino “cum” e “par”, cioè, insieme da pari.
Il che significa che si è compari, quando ci si stima reciprocamente con pari rispetto e pari stima, quando, cioè, si è amici. Amici al punto di affidargli i propri figli, chiedendo loro di essere i loro padrini di battesimo o di cresima, o scegliendoli a testimoniare il nostro giuramento matrimoniale.
Esistette un tempo la tradizione di chiedere a qualcuno di diventare il proprio compare, a prescindere dai casi descritti. Era usanza chiedere tale comparaggio nel giorno di San Giovanni, il 24 giugno, inviando in casa del futuro compare un vaso di basilico. Se l'invitato accettava, si diventava compari di San Giovanni, anche se il santo non c'entra niente.
Oggi, purtroppo, questo esser compari ha assunto significati, che non gli sono propri. Si è compari, per esempio, per compiere azioni fraudolente!

Io rimango fermo al “cumpari Turiddu” di Giovanni Verga.

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Visto che avete trovato interessante scoprire che spesso parlare in siciliano equivale a parlare in greco antico, scopriamo altri vocaboli siciliani, trasmessi alla lingua italiana.
“Cannolu” è diventato in italiano “cannolo”; “trazzera” è rimasto “trazzera” in italiano; “virdeddi” (i limoni verdelli) sono diventati verdelli; “salmurigghiu” invece “salmoriglio”; “ntrallazzu” “intrallazzo”; “sfinciuni” “sfincione”.

Confessiamolo: come ammise Dante, abbiamo insegnato la poesia al resto d'Italia, ma le abbiamo regalato anche tanti termini per esprimersi. Nonostante ciò, troppo spesso soffriamo di una forma di sottomissione all'italiano televisivo. Dimentichiamo pure che più che debitori, siamo creditori dell'Italia delle altre regioni, comprese la Lombardia e la Toscana!

Torneranno i Verga, i Capuana, i Pirandello, i Quasimodo, i Brancati, i Borgese, i Tomasi di Lampedusa, i Piccolo e gli Sciascia a risvegliare la Sicilia? E noi saremo in grado di riconoscerli?

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A tantissimi di noi sarà accaduto di definire "vastasu" qualcuno poco educato, ma pochi di noi sapevano di usare in quel momento il termine greco "bastaz"; lo stesso è accaduto, quando abbiamo definito un uomo lento fisicamente e moralmente "ntamatu", che deriva dal greco thuma; per non dire del nostro scherzare, che diciamo "babbiari", dal greco "babazein"; "carusu" da "kouros"; "pistiari" da "apestiein".

Quindi, quando noi diciamo che "u carusu pistiava comu un vastasu e babbiava cu du ntamatu du so cumpagnu", non abbiamo parlato in siciliano, ma in greco antico!

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Per ben due volte Dante parla della Sicilia. La prima volta nel De vulgari eloquentia, per riconoscere al volgare siciliano una supremazia sugli altri volgari italiani.
“Il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri per queste ragioni: che tutto quanto gli italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano; e che troviamo che molti maestri nativi dell’isola hanno cantato con solennità”. (Dante Alighieri, “De vulgari eloquentia”)
La seconda volta ne parla nella Divina Commedia, per ricordare i Vespri siciliani. È strano che nei nostri licei non si facciano leggere i seguenti versi del Paradiso ai giovani, per farl inorgoglire:
“E la bella Trinacria, che caliga tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo che riceve da Euro maggior briga, non per Tifeo ma per nascente solfo, attesi avrebbe li suoi regi ancora, nati per me di Carlo e di Ridolfo, se mala segnoria, che sempre accora li popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”. (Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, VIII canto, vv 67-69)

Se Dante è il padre della lingua italiana, sicuramente il siciliano è stato il suo maestro! Egli, infatti, non si limita a sostenere l'importanza del volgare siciliano, come ho riportato giorni fa con il brano del “De vulgari eloquentia”, ma nel suo Poema utilizza non pochi termini siciliani.
Nel verso 56 del Purgatorio dice: “dalle prime notizie omo non sape”. E che cos'è quel “sape” se non un tempo e una persona del siciliano “sapiri”?

Per non dire della terza persona del verbo essere, che nel messinese è ancora in uso: “este” invece di è, sparsa un po' dovunque nel Poema.

Al verso 127 del canto XXIV dell'Inferno fa dire a Virgilio al ladro sacrilego Vanni Fucci: “Dilli che non mucci.” Quel “mucci” sta per nasconda e viene dal siciliano “ammucciari”.
E ancora, nei versi 104-105 del canto II del Purgatorio: “sempre quivi si ricoglie, quale verso Acheronte non si cala”. “Ricoglie” non è altro che il siciliano “arricugghiri”.
Gli esempi sono più che numerosi e sarebbe opportuno che gli insegnanti d'italiano li facessero scoprire agli studenti nel Poema dantesco. Ma forse il mio è un chiedere un impegno oltre le loro capacità culturali.

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Dopo aver dato ieri sera il mio contributo all'informazione, riportando gli sviluppi positivi sulla vicenda del nostro ospedale, voglio serenamente ritornarmene alle più edificanti riflessioni sulla lingua siciliana.

Dopo avervi incuriositi raccontandovi del giudizio positivo di Dante sul siciliano e dopo aver riportato tantissimi esempi della derivazione di tanti suoi termini dal greco, dall'arabo, dal latino eccetera, oggi vorrei riflettere sullo stato del siciliano nel contesto delle moderne Istituzioni nazionali e internazionali.
In pochi sanno che l'UNESCO ha riconosciuto al siciliano lo status di lingua madre, insieme ad altre lingue europee non a rischio di estinzione. Oltre che in Sicilia, il siciliano si parla in Belgio e in tutti quei Paesi in cui fu forte l'emigrazione. Lo si parla anche negli Stati Uniti, dove è stato creato persino il “siculish”, consistente nella sicilianizzazione di termini inglesi. Bisogna dare merito al compianto Leonardo Sciascia dell'uso di molti di questi termini nel suo racconto “La zia d'America.
Lo stesso non è avvenuto con l'Italia, con la Repubblica Italiana, che non riconosce lo status di lingua al siciliano. Soltanto la Regione ha promulgato alcune norme volte alla sua promozione, che però non hanno ottenuto risultati concreti.

Nel 2012, dalla collaborazione tra Università di Palermo e Università di Rosario è nato il Centro de Estudios Sicilianos e l’istituzione di una cattedra di “Cultura e lingua siciliana”. L'organizzazione internazionale Araba Sicula, con sede a New York, annovera tra i suoi lavori la pubblicazione di una rivista bilingue (sia in inglese che in siciliano).

Per oggi può bastare. Domani, Amministrazione e Ospedale permettendo, spero di tratteggiare brevemente le origini della prima lingua siciliana, risalenti a un periodo antecedente ai Greci e ai Latini, quello degli Elìmi.

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Nonostante i tentativi della bassa politica attuale, che sta spogliando Cefalù di tutto, non riesco ad allontanarmi dalle ricerche sulla nosra lingua siciliana. In fondo sembra che vogliano spogliarci anche di essa! Sappiano, però, che al popolo non può togliersi la lingua, se non togliendogli anche libertà e dignità!

È bene sapere che il siciliano è il risultato della fusione dei dialetti italo-romanzi, che caratterizzavano le popolazioni della Sicilia già prima dell’arrivo dei Greci e dei Romani.
Secondo l’organizzazione linguistica Ethnologue, la sua peculiare struttura lo renderebbe un idioma a sé. La sua origine sembra essere di tipo indoeuropea, il che confermerebbe una natura totalmente distinta del siciliano dal volgare italiano.

Fu Federico II di Svevia a farne la prima lingua letteraria d’Italia.

Si presume dunque che il siciliano possa derivare direttamente dalla lingua elìma, utilizzata dal popolo che occupava la parte più a Occidente, quella sicula e sicana. Esso, quindi, è nato almeno nel 2000 A.C., prima cioè di Eschilo e di tutta la cultura greca. Vengono considerate sicane tutte quelle iscrizioni non indoeuropee, che sono state ritrovate sull’Isola (per esempio Morgantina). Per il tipo di struttura, però, si presume che furono la lingua sicula, di origini latine, e la lingua degli Elimi, di origini indoeuropee, a costituire il nucleo centrale portante del linguaggio siculo.