Ricordo di Mons. Salvatore Cefalù nel decimo anniversario della scomparsa

Ritratto di Quale Cefalù

12 Settembre 2016, 09:41 - Quale Cefalù   [suoi interventi e commenti]

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Riceviamo da Anna D'Arrigo e pubblichiamo un ricordo di Mons. Salvatore Cefalù nel decimo anniversario della scomparsa.

IN RICORDO DI MONS. SALVATORE CEFALÙ A 10 ANNI DALLA SUA SCOMPARSA

 

Il  12 settembre, alle ore 16,30, nella chiesa dell’Itria, verrà celebrata dal parroco don Liborio Asciutto una messa in suffragio di mons. Salvatore Cefalù, a 10 dalla sua scomparsa.

Con questo scritto vogliamo semplicemente richiamarlo alla memoria di quanti, nel passato, lo hanno avuto come maestro, amico e fratello, ma vogliamo pure presentarlo alle nuove generazioni, che, per ragioni anagrafiche, non hanno avuto modo di conoscerlo, affinché il suo magistero e  il suo stile di vita possano continuare ad essere vivi, attuali ed operanti. E lo facciano attraverso le testimonianze, mai di circostanza ma sgorgate  naturalmente dal cuore, di amici, colleghi di scuola, allievi, presuli, presbiteri, componenti della Comunità parrocchiale della Cattedrale e, segnatamente, del laicato che si riconosce nell’Azione Cattolica.

«Sacerdote, docente, uomo di cultura, critico letterario di notevole spessore intellettuale e morale, […] scrittore versatile, agile, poliedrico per i suoi molteplici interessi etici ed umani; primo parroco della Cattedrale, Rettore dell’amata chiesa di Santo Stefano,  assistente diocesano dell’A.C., Canonico capitolare, ma, soprattutto uomo capace di scelte impegnative» (prof. A. La Grua).

È stato un docente «amatissimo» del nostro Liceo classico Mandralisca, come hanno dichiarato e dichiarano i suoi ex allievi ed ex colleghi: «Sacerdote integerrimo, educatore appassionato, valoroso e solerte cultore di Lettere italiane e latine, docente attento e aperto ai giovani, assistente e formatore di intere generazioni in A.C., è stato fulgido esempio di rettitudine». (prof. G. Sottile).
Fu acuto critico letterario, come traspare dalle sue opere,  talvolta esili, ma sempre ricche di indovinate valutazioni» (prof. A. La Grua),  apprezzate anche dalla critica ufficiale.  Il noto critico letterario Giorgio Barberi Squarotti - ermeneuta di Giovanni Pascoli - in uno scambio epistolare  definì questi lavori «un’ottima lezione di letteratura, di storia e teoria» e, complimentandosi, lo invitava a comporre ulteriori pagine critiche.

Nell’ultima fase della sua esistenza, quando la malattia lo logorava, aveva accettato con eroismo cristiano  il dolore, chiarendo lui stesso che «Per la sofferenza non ci sono farmaci, perché essa è, per sua natura, psichica e spirituale. L’unico farmaco è il calore dell’affetto umano, la presenza di una persona amica che esprima solidarietà e conforto».
Ed ancora: «È pur vero che chi soffre, soffre da solo, ma talora la solitudine o il sentirsi soli deprime più della sofferenza». Nonostante la malattia lo fiaccasse, limitandolo nei movimenti,  «facendo leva  con un grande sforzo fisico e mentale sulla sua collaudata cultura letteraria e religiosa, […] si era dedicato con fervore e versatilità all’esercizio della critica» (prof. A. La Grua) e alla  composizione di opere ancora oggi attuali.

Memorie pastorali,  Pensieri in libertà, Sensibilità religiosa nella poesia pascoliana, Identità dell’Azione Cattolica,  Rapsodia di Pensieri,  Lineamenti del Decadentismo, Silloge (il mio cammino spirituale nella prolungata infermità),  Le mie riflessioni,  Poetiche del ‘900 italiano, Catechesi e catechisti nella riflessione di un presbitero, Supplemento a Le mie riflessioni, etc.: «Sono edificanti questi scritti e io mi auguro che siano largamente conosciuti per il valore che essi hanno in  se stessi ma anche per  quello che essi rappresentano conoscendo bene  con quanto sacrificio Mons.  Cefalù si occupava  delle realtà della nostra vita ecclesiale e della vita  del nostro tempo». (Mons. Francesco Sgalambro, vescovo).

Per lui, però, la Cultura, come ha più volte scritto,  si propone innanzi tutto «la promozione e la formazione integrale dell’uomo,  lo coltiva (secondo il significato etimologico)  per il suo crescere sino a formarne la coscienza e renderlo capace di operare  scelte libere e responsabili in modo da promuovere l’equilibrio tra mondo esterno e mondo interiore, tra necessità e marginalità. Sicché la cultura non è un cumulo di nozioni, né dominio dell’intelletto, ma una presa di coscienza di sé e della realtà di cui l’uomo fa sintesi». Infatti, della sua docenza viene ricordato che «metteva la cultura  a servizio della formazione dei giovani: educazione attraverso la cultura; tra le più difficili forme di educazione» (prof. G. Sottile).
Per don Totò Cefalù il fine del docere era «suscitare  nei discenti il senso, il sapore del sapere,  per maturare interiormente e globalmente»  (prof. G. Sottile).
«I giovani, poi,  avevano sempre lo spazio centrale nelle sue riflessioni: emergeva, su tale punto, l’appassionata e responsabile figura dell’educatore, che, a proposito della formazione scolastica, una volta ebbe a dire: “La scuola deve plasmare, non plagiare la personalità dei giovani in quel rapporto diretto ed immediato che deve instaurarsi tra loro e i docenti, basato sul dialogo aperto e costruttivo,  attraverso il quale l’esperienza, la cultura e l’umanità di questi passino nella mentalità e nell’animo dei discenti”. Nei nostri dialoghi […] riscoprivo quel suo accorarsi […] per il valore educativo dei Classici, della Letteratura, in linea con  la preoccupazione di Seneca: Ego vero omnia in te cupio transfundere, et in hoc aliquid gaudeo discere, ut doceta (Io davvero desidero trasmetterti tutto il mio sapere e, per questo, provo piacere ad imparare per insegnare)» (prof. A. Franco).

Nella Lettera di un ottuagenario ai giovani  affermava: «Voi giovani siete la primavera della vita, il giardino irrigato, che con i variopinti fiori dovete profumare l’aria d’intorno, ma i fiori devono maturarsi in frutto, ecco perché siete la speranza del rinnovamento e della restaurazione degli equilibri della società […] Siate fedeli ai principi informatori della vostra vita e coerenti nel praticarli […]. I vostri occhi si allietino delle meraviglie del creato. Turate le orecchie alle seduzioni di fate morgane, di fittizi paradisi artificiali, di fatui piaceri […]. Proseguite il vostro cammino con fiducia, coraggio e speditezza. Non scendete mai a facili compromessi con voi stessi, con la vostra coscienza. Lasciatevi affascinare  da ideali che riempiano il cuore».

Il suo sacerdozio sin dagli inizi fu contraddistinto da un particolare carisma: l’apostolato giovanile.
Carisma intuito e individuato  dal vescovo mons. Emanuele Catarinicchia, che lo nominò assistente diocesano dell’Azione Cattolica e che  instaurò con lui un intenso, fecondo e amicale rapporto di stima e di collaborazione che perdurò, rafforzandosi, sino alla sua morte.

Nella crisi, precedente e successiva al Concilio Vaticano II, dovuta allo sforzo chiesto alla Chiesa di essere vicina al mondo attraversato da  mutamenti così rapidi e globali in ambito sociale, culturale, politico, senza però tradire la Verità affidatale da Cristo,  padre Totò fu molto presente: «Il canonico Cefalù fu così sensibile e avveduto da  sostenerci in questa crisi di trapasso aiutandoci  a leggere i segni dei tempi ed educandoci alla serenità, all’ottimismo,  ma soprattutto alla fiducia da ancorare alla Fede in Dio» (dott. P. Giardina).

Il suo costante servizio verso i giovani dell’Azione Cattolica fu particolarmente apprezzato anche dalla presidente nazionale Paola Bignardi: «Quello degli assistenti locali di Azione Cattolica è un impegno discreto e umile, svolto spesso nell’ombra: questo è infatti il modo con cui operano quanti costruiscono le coscienze non con una azione di plagio, ma di promozione della loro libertà […]. Tra questi Assistenti fedeli al loro ministero e solleciti del loro compito educativo c’è mons. Salvatore Cefalù, alla cui scuola tanti laici cristiani hanno scoperto la bellezza della loro vocazione, hanno cercato le strade concrete per viverla».

Non rivolse la sollecitudine, la catechesi sacramentale, la guida  e l’assistenza soltanto ai giovani e all’A.C.,  ma: «Fatto  parroco [nella festa solenne della Trasfigurazione del Signore, il 6 agosto 1989]  ancor più di prima con generosità, impegno e dedizione, si è tutto dato alla Parrocchia, riservando alle famiglie una particolare attenzione, visitandole nelle loro case con periodicità costante, assicurando l’assistenza spirituale agli ammalati, agli anziani, e accompagnandole nel cammino di fede soprattutto nei tempi forti dell’anno liturgico.»  (mons. Rosario Mazzola, vescovo).

Lo zelo per gli altri lo portava ad essere «uomo  e  amico […] di quanti si occupassero di ricerca e di analisi sociale; il che  fa di un sacerdote un animatore ed un buon cittadino.»  (prof. A. La Grua). Un buon cittadino   attento  alla realtà sociale e al divenire della sua città, tanto da scrivere, in una lettera  del 1990,  agli Amministratori del tempo: «non sfugge certamente alla Vostra attenzione l’impellente necessità di prodigarsi in una gara generosa e disinteressata di tutte le forze politico-sociale e di tutte le componenti ecclesiali per elevare il tenore di vita, a tutti i livelli, dando ampio spazio ad iniziative che  coinvolgano intellettuali, professionisti, lavoratori e, in particolare, i giovani per orientarli verso i grandi ideali della vita. Urge, inoltre, operare una radicale inversione dell’andazzo del turismo cefaludese, che d’estate offre soltanto lo squallido spettacolo di una città conquistata da gente che impunemente offende il senso morale, declassandone il decoro». 

La stessa sensibilità lo portava a stigmatizzare il divario tra la politica e il mondo reale: «il linguaggio politico diviene sempre più incomprensibile alla gente comune, smarrita nella babele linguistica perché le parole assumono un significato diverso ed opposto secondo il colore politico di cui si fregia chi parla. Ogni politico ha il suo taccuino lessicale, che sfoglia al momento opportuno. Il linguaggio diventa oscuro; infatti, sui termini-chiave giustizia, salute, federalismo economico, etc. non ci si intende più. È l’inizio della degenerazione della lingua e un segno della crisi culturale».  

La giustizia evangelica gli ispirava questa amara riflessione: «Nell’arco dell’esistenza molti si affannano, si agitano nelle tenebre della coscienza, farneticando, senza scrupoli, loschi piani di arrivismo a danno del bene comune, della giustizia e della legalità, macchiandosi spregiudicatamente di sangue indelebile. “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la vita” (Lc 12, 20)».

Viveva il suo sacramento sacerdotale nella piena consapevolezza che:

«Sono sacerdote, e per sempre lo sarò:
“Tu es Sacerdos in aeternum”!
Nel ministero si misura e si realizza la propria
 vocazione. Se la ricusassi, tradirei me stesso e
Colui che mi ha chiamato»

Come sacerdote, «don Totò sapeva guardare le persone e leggere nelle anime, intuiva in maniera lineare ed efficace i problemi esistenziali, i drammi nascosti, sapeva comprendere, aspettare, dire la parola giusta al momento opportuno, incoraggiando sempre ad avere fiducia in Dio, nelle proprie possibilità, nel proprio avvenire.» (prof. G. Sottile).

«Rappresentava, nel panorama ecclesiale del territorio, un forte punto di riferimento.» (prof. A. La Grua).
Come ha ricordato il vescovo mons. Francesco Sgalambro «da quell’8 aprile 1944 [inizio del suo sacerdozio]  ha offerto la sua esistenza umana e cristiana […]. Poi il suo servizio al Signore e a questa nostra Chiesa locale si faceva sempre più impegnativo: […] veniva nominato nel 1986  Direttore dell’Ufficio Catechistico Diocesano, responsabile di quella catechesi che è un po’ alla base della nostra vita cristiana […]. Un anno dopo era nominato Segretario del nascente nostro Istituto di Scienze Religiose. A questo impegno, che richiede una formazione teologica più accurata e più profonda, non si era sottratto, prodigandosi con la sua abituale generosità, senza risparmiare se stesso con i ricchi doni di intelligenza e di grazia che il Signore gli aveva dato». Quanti esempi edificanti!  L’ultimo è quello «della sofferenza indicibile, indescrivibile, non posso fare a meno di ripeterlo, insopportabile. Lo ricordo bene, inizialmente con qualche speranza, se non proprio di guarigione, almeno di poter essere sollevato nei suoi dolori. […] Poi, purtroppo, l’aggravarsi delle sue sofferenze. Ma in questo aggravarsi, lui stesso lo notava come una grande grazia, spiccava la lucidità della sua intelligenza, il pieno possesso della sua cultura. Si rimaneva  stupiti in questi anni di sofferenza per i suoi tanti interventi: li faceva giungere per iscritto tante volte, alcun volte venivano anche pubblicati, altre volte ancora a voce. Interventi sulla realtà della vita del nostro tempo: ricordo, in particolare, quello relativo al gravissimo problema dei rapporti delle radici cristiane con il laicismo, un argomento che sapeva approfondire nell’indagine storica, per il quale sapeva distinguere e precisare le posizioni e aveva il coraggio di additare la verità contro le miserie e le piccolezze umane. […] Ma, specialmente, la sua attenzione  si concentrava proprio sul mistero del dolore che lui viveva nella sua carne, con tutte le umiliazioni  proprie che questo comporta. Essere attenti a questo mistero del dolore e affidarsi al Signore è autentico eroismo, l’eroismo cristiano delle grandi virtù cristiane della fede, della speranza e della carità.» (mons. Francesco Sgalambro, vescovo).

Il travaglio, la sofferenza, le ambasce  possono causare negli uomini smarrimento e dramma interiore, ma è la fede l’ancora di salvezza. Così scriveva:

«La luce della fede, il raggio di speranza,
 la preghiera infondono fiducia, restaurano il tessuto
che si è logorato nel travaglio del vivere quotidiano,
confermano la consapevolezza
che la sofferenza va accettata,  non con stoica fatalità,
ma come  partecipazione alla passione di Cristo, “Uomo dei dolori”,
come uniformità alla volontà di Dio,
ed inoltre come oblazione della quotidianità
per le necessità della vita di tutti e della chiesa».

«Egli ha esercitato il suo più alto magistero attraverso la cattedra della sofferenza, consapevole di unirisi alle sofferenze di Cristo, per essere eucaristia, pane spezzato, dono per tanti fratelli». (prof. F. Venturella).

La ricca eredità spirituale e culturale lasciataci da mons. Cefalù non può e non deve andare dispersa. La sua testimonianza di fedeltà e di amore alla Chiesa cefaludense e alla Città di Cefalù non può cadere nell’oblio. Il suo generoso esempio di vita, come sacerdote e come cittadino, non può essere sottaciuto: «Questa Chiesa e questa Città hanno ricevuto molto dal suo instancabile servizio: un efficace servizio di cultura, di umanità, di carità operosa». (prof. F. Venturella).

È ufficio delle Istituzioni  civili ed ecclesiastiche mantenerne sempre viva la memoria.