Le rimembranze e la vita che finisce

Ritratto di Angelo Sciortino

3 Ottobre 2016, 18:18 - Angelo Sciortino   [suoi interventi e commenti]

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Ho avuto la fortuna di vivere le mie estati fanciullesche e giovanili nella masseria di famiglia. Vi si allevavano tutti gli animali domestici e vi erano oltre cento operai ricchi non soltanto di abilità, ma anche di saggezza. Insieme a loro ho vissuto bellissime giornate estive e serate all'insegna di racconti di vita vissuta di chi era stato in guerra in Africa e in Russia, prigioniero in Inghilterra, o aveva conosciuto personalmente uno dei tanti malandrini, che infestavano allora la Sicilia.

Ricordo ancora i nomi delle mansioni. Il casaro, che era anche quello che curava il formaggio fino alla sua maturazione, si chiamava curatulu; colui che infornava il pane e cucinava per tutti si chiamava ribattieri e ribatteria era il locale con il forno e i fornelli; l'uomo addetto ai muli, che trasportavano legati l'uno all'altro (arrinati) le merci internamente (il terreno era esteso oltre 600 ettari) o verso l'esterno, si chiamava urdunaru; il pastore delle pecore picuraru, quello delle capre crapraru, ma i loro giovani aiutanti si chiamavano rispettivamente picuraruottu e craparuottu; u vaccaru era addetto alle vacche e u vuiaru ai buoi.

Colpisce oggi la mia memoria che ogni mulo, ogni cavallo e ogni vacca avesse un nome. Per esempio, la mula personale di mio nonno si chiamava furchetta e quella riservata a me baia, dal colore del suo mantello. Poi c'erano le vacche venezia, firenze eccetera. I vitelli figli di ognuna erano subito riconosciuti dal vaccaru, che provvedeva a farli allattare a una sola delle mammelle della madre, che mai avrebbe dato latte non in presenza del figlio! Ogni agnello e ogni cerbiatto – e questo era più difficile – era riconosciuto dal picuraru o dal craparu, che lo accompagnavano fino alla loro madre, perché allattasse. Per informazione di chi legge, le vacche erano più di trecento, mille erano le pecore e altrettante le capre. I muli, poi, erano venti. Soltanto dieci i cavalli e gli asini.

La sera, quando tutti stanchi si ritiravano nelle loro stanze, me ne tornavo negli appartamenti padronali e lì cenavo insieme a mio padre e a mio nonno. Seguiva poi una conversazione con loro, finché, stanco anch'io per aver scorrazzato per la campagna a piedi e a cavallo, non andavo a letto, per alzarmi alle tre del mattino successivo, in modo di assistere al raggrupparsi degli animali per la mungitura. Alla rottura della cagliata (il formaggio appena coagulato grazie al caglio) facevo il primo assaggio di colazione, che proseguiva dopo circa un'ora con la ricotta e siero appena fatta. Ma non mi bastava. Mezz'ora dopo, durante la lavorazione della tuma del giorno prima inacidita, assistevo alla sua filatura e alla trasformazione in caciocavallo. Anche di questo formaggio filato ne mangiavo una buona dose. Poi, via a consumare tutte le calorie ingurgitate con la corsa per i campi per visitare la mandria e le greggi sparse per tutto il terreno.

Quando compii sette anni, si ebbe una novità. Sapevo già leggere e far di conto. La sera mio nonno non si limitò soltanto a conversare con me, ma mi faceva giochi matematici, come quello di chi, aggiungendo un numero non inferiore a uno e non superiore a dieci, avrebbe raggiunto cento. Per diverse sere vinse lui, ma dopo giorni di pensarci su capii come fare e da allora vinsi, costringendolo a passare a un altro gioco e poi a un altro ancora. Non mi annoiavo e oggi gli sono grato di avermi insegnato a usare il cervello divertendomi.

Non meno divertenti furono le serate con il latino. Lo conosceva bene e lo leggeva come se fosse italiano. Con calma lo fece conoscere anche a me, per cui, quando alle medie cominciai a studiarlo, trovai le lezioni non difficili, ma persino banali. In fondo già leggevo e traducevo Cicerone, Cesare e Sallustio. Per riprenderne la traduzione a scuola, dovetti aspettare cinque anni, quando superai la quinta ginnasiale! Quanto tempo fanno perdere le scuole!

Oggi quel mondo non esiste più e ancora per poco esisterò io. Non mi meraviglia che la durata della vita umana sia così breve, perché essa dura tanto quanto dura il mondo conosciuto fin dai primi anni della nostra vita. Quel mondo, volenti o nolenti, siamo noi a cambiarlo e quando esso è cambiato, non è più il nostro mondo. In questo mondo cambiato non riusciamo più a vivere, perché ogni cosa ci sembra nemica. Qualche volta anche stupida e ci sembra che questa stupidità pervada ogni cosa. Perdiamo il gusto della conversazione e persino ci vergogniamo di raccontare noi stessi, di consigliare e di giudicare, perché per fare queste cose dovremmo cancellare tutto ciò che è servito a elevarci oltre la natura animale o bestiale del nostro essere. È quindi giusto che la nostra vita finisca così come è finito il nostro mondo.

Commenti

Solo oggi, rientrato nel clima cittadino dopo quattro mesi di elegiaca Arcadia, ho avuto modo di leggere queste tue rimembranze.

Un piacevole tuffo nel passato, che, raffrontato all'odierno caotico tran-tran della vita moderna, rappresenta l'oasi dei nostri più cari ed incancellabili ricordi.

Caro Angelo, interrompendo ogni tanto il tuo impegno di attento censore, continua ancora su questa apprezzabile falsariga, che è chiaro ti sia congeniale. Non guasta.