La torre di Morello

Ritratto di Carlo La Calce

10 Dicembre 2017, 10:33 - Carlo La Calce   [suoi interventi e commenti]

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La torre di Morello
Novella di Francesco Musotto, scritta nel 1935

 

Scorcio della Pollina medievale - Arco e Chiesa di S. Antonio

 

Veduta di Pollina

 

 

Premessa

Avendo ritrovato tra vecchie carte una breve novella scritta da mio nonno Francesco Musotto, durante un soggiorno estivo nella sua Pollina (ai Casalicchi) nel 1935, ne propongo in questa sede il testo, da me riveduto e corredato da una breve nota sulla figura dell’ autore.

La novella, dal titolo La torre di Morello, si rifà ad una antica vicenda incentrata sullo scontro tra la comunità pollinese e il Barone Ventimiglia  (forse Simone II, Marchese di Geraci e Signore di Pollina col titolo di Barone)  per il possesso di alcuni feudi.

La fantasia popolare diede origine ad una leggenda secondo cui la soluzione della vertenza venne affidata all’ esito della lotta tra i due giovani campioni scelti a rappresentare le due parti.

La vittoria di Morello, l’ aitante campione dei Pollinesi, sul rivale Simone, poneva fine all’ annosa questione e alle ingiuste ed arbitrarie pretese del Barone Ventimiglia fondate su prepotenza e sopraffazione.

Il giovane – che, fatto successivamente  imprigionare dal Barone in una torre, trovava la morte nel tentativo di fuggire – era dunque destinato a divenire nell’ immaginario collettivo l’ eroe indomito e valoroso che si batte con coraggio contro ingiustizia e sopruso.

 

Francesco Musotto (Pollina 1881 – 1961)

Dotato di autentico carisma e di profonda sensibilità sociale, intraprese giovanissimo la carriera nella Magistratura fino a raggiungere il grado di Procuratore del Re.

Dopo la fine del primo conflitto mondiale (a cui partecipò meritandosi, col grado di Capitano del Genio, la Medaglia d’ Argento al Valore Militare sul campo), fu Deputato al Parlamento nella XXVII legislatura, nel corso della quale esercitò l’ opposizione contro il Fascismo, votando coraggiosamente per appello nominale contro le leggi repressive delle libertà democratiche, compresa quella che istituiva la pena di morte.

In seguito all’ occupazione alleata della Sicilia fu nominato Prefetto di Palermo nel 1943 e successivamente Alto Commissario per la Sicilia nel 1944.

Dopo essere stato membro della Consulta e poi dell’ Assemblea Costituente, fu Deputato al Parlamento con il PSI dal 1948 per tre legislature consecutive fino al 1961, anno della sua morte.

L’ allora Presidente della Camera Giovanni Leone, nella seduta del 26 settembre del 1961, concludendone la commemorazione, affermava : “ A questa Assemblea partecipò fin dalla Costituente e tutti ricordiamo il calore, la saggezza e la profonda ispirazione morale e sociale dei suoi interventi sui più vari argomenti . Era il decano per età della nostra Assemblea e tuttavia esprimeva qualità di alta vivacità, prontezza e diligenza tali da oscurare il peso degli anni.

Scompare con Francesco Musotto una delle figure più rappresentative del socialismo italiano, una tempra di autentico democratico, di fiero e leale combattente per la libertà”.

 

La torre di Morello

 

Non era ancora l’ alba. Il paese dormiva e la quiete veniva tratto tratto rotta dallo squillante e cadenzato martellare sull’ incudine di Mastro Giuliano, nell’ antica bottega che sarebbe poi stata di Mastro Carmine.

“Domani arriverà a Pollina il Barone Ventimiglia da Castelbuono” esclamò il fabbro, interrompendo di battere sull’ incudine e asciugandosi il sudore della fronte con il dorso della mano.

“Sicuro!” intervenne Peppe Cangelosi. “Rami di elice e di quercia, tralci di edera pendono già dall’ arco di Sant’ Antonio”.

“Da sette anni il popolo pollinese attende il riconoscimento dei suoi diritti; domani tutto sarà deciso. Iddio e San Giuliano proteggono il popolo e non certo il barone prepotente e usurpatore” continuò il fabbro, riprendendo a battere più forte sull’ incudine, come se volesse picchiare sulla testa di qualcuno.

“La sfida tra Morello e Simone domani deciderà le sorti delle terre contese al popolo di Pollina dal Barone Ventimiglia. Morello, campione scelto dalla nostra gente, sarà il sicuro vincitore; Simone,  rappresentante del barone, verrà sconfitto!” sentenziò Mastro Giuliano.

“Due bravi campioni, degni entrambi dell’ impresa” aggiunse Peppe Cangelosi. “Se Morello è forte e gagliardo, Simone, che è cresciuto nei boschi, salta come un capriolo”.

“Tu sei, Peppe Cangelosi, affetto da perniciosa mentale ed hai perciò la lingua lunga che io ti mozzerei qui sull’ incudine” sbottò Mastro Giuliano, improvvisamente più rosso in volto, immergendo con impeto il ferro nella fornace e lanciando uno sguardo torvo al povero pastore che si ritrasse verso la porta.

“Tu sei ignorante come tutti i pastori”  aggiunse poi; “vivi lontano dalle cose degli abitati, regoli il tempo sul cammino del sole e sui settenari delle lune e conti a ventine gli anni che ti passano sul groppone. Noi invece che abbiamo mangiato pane di tutti i forni, contiamo le ore sull’ orologio, conosciamo i venti come i marinai e contiamo gli anni a lustri, chè tutto ciò ci ha insegnato Don Giuliano Cassataro, il prete caritatevole e sapiente che conosce più cose lui che il Vicario di Roma.

San Giuliano mi perdoni l’ eresia ma - che vuoi? - a questo mondo le cose si devono dire come sono”. Seguitò quindi  : “non lo sai che l’ anno scorso don Giuliano fu chiamato a Roma dal Vaticano? Non ci andò per non abbandonare il popolo di Pollina”.

 E dopo una brevissima pausa : “Morello è della nostra stessa pasta e in quanto a forza e coraggio non teme rivali” concluse il fabbro.

Peppe Cangelosi raccolse timidamente da terra il ferro che Mastro Giuliano gli aveva allestito per l’ aratro e uscì dalla bottega asciugandosi il sudore della fronte con i lembi della giacca.

Fuori era il primo apparire dell’ alba e per la valle risuonavano lieti i rintocchi del Salve Regina.

Le campane della Matrice suonarono quella mattina a distesa fino ad alba chiara.

Don Giuliano Cassataro era davvero il prete caritatevole e sapiente che viveva in mezzo alla sua gente, portando parole di conforto e il dono della carità ad ammalati e bisognosi, insofferente ad ogni forma di ingiustizia e di sopruso, sicuro ed insostituibile riferimento per tutti, arbitro saggio e imparziale di ogni controversia.

Da sette anni lottava caparbiamente per la rivendicazione dei diritti della comunità contro la prepotenza del Barone Ventimiglia che pretendeva impadronirsi delle terre della Serradania e di quelle distanti un miglio dall’ abitato di Pollina.

Il prete aveva minuziosamente rovistato tra le carte degli archivi del Comune e della Chiesa, raccolto tutte le notizie utili alla sua causa, sempre lucido e fermo nel contraddittorio col legale del barone che da Palermo, con toni accesi e spesso minacciosi, gli inviava lettere di diffida.

Una mattina, vincendo le resistenze dei familiari preoccupati per i rischi del lungo e faticoso viaggio, accompagnato dai suoi due nipoti, Nunzio e Francesco Cassataro, decise di partire alla volta di Palermo.

Giunto dopo tre giorni in città, si presentò – travestito da pastore, dimesso, incolto -  allo studio del legale, in via Maqueda, nei pressi dei Quattro Canti, con l’ atteggiamento di chi va umilmente ad implorare consiglio e aiuto.

“Che volete?” chiese il legale con malcelata impazienza, come per dirgli : “fate presto e lasciatemi in pace”, chè l’ aspetto del pastore era quello del cliente che  secca e non paga.

Don Giuliano comprese; tolse dalla tasca interna del giubbone una borsa di pelle di montone e sciorinò sul tavolo del legale cinque pezzi d’ argento da sei tarì ciascuno.

“Dunque, buon uomo, in cosa posso esservi utile?” chiese in tono divenuto improvvisamente disteso e amichevole il legale, mentre si avvicinava col seggiolone al tavolo ed incrociava le braccia sul petto come per dire : parlate pure quanto volete.

Il pastore, assunta l’ aria impacciata di chi trova difficoltà ad esprimersi, prese a dire : “Signor avvocato illustrissimo, io vengo dalla lontana Castelbuono e ho fatto tanta strada per avere da Vossignoria un consiglio, un aiuto. Mi deve Vossignoria compatire se non so parlare, chè ho avuto sempre a che fare con le pecore e sono analfabeta”.

“Dite, dite pure” lo incoraggiò con il legale.

“Ho da parecchi anni in fitto parte delle terre del barone Ventimiglia in territorio di Pollina e ci ho rimesso nell’ affare tutti i miei risparmi. Ora è dalla settimana santa che i Pollinesi mi inquietano quasi tutti i giorni; a frotte vengono nelle terre, facendo spaventare me e gli animali  e domenica scorsa me ne ammazzarono più di cinquanta, facendomi più danno loro che tutti i lupi della contrada. Mi creda, signor avvocato, per il dispiacere sono ridotto pelle e ossa”. 

“Questione vecchia” intervenne il legale. “Occorrerà comporsi con i Pollinesi, ho consigliato al barone, o quei bricconi, guidati da un prete caparbio e determinato, finiranno per avere ragione”.

Il pastore si fece più umile e supplichevole. “Ma non ha atti e documenti l’ eminentissimo e illustrissimo signor barone per dimostrare che le terre sono sue e mettere così a posto quei dannati?” chiese timidamente.

“No. No” fu la risposta del legale. “Ho fatto ricerche dappertutto. Anzi….”. Ma non continuò.

Solo dopo una breve pausa concluse : “comunque la cosa si comporrà presto, buon uomo, a meno che quel birbone di un prete pollinese non ci rompa le uova nel paniere”.

“Oh, a proposito di uova,  signor avvocato, vorrà perdonarmi, le ho portato un paniere di uova della nostra campagna e quattro galletti che ho lasciato nell’ anticamera. Vorrà avere la compiacenza di accettarli”.

“Grazie, grazie e coraggio, buon amico. Tornate tranquillo alle vostre pecore che presto la vertenza sarà definita. Si,si, presto, entro l’ anno”.

Con questa rassicurazione il legale congedò Don Giuliano il quale, dopo un ossequioso inchino, si diresse verso la porta.

Appena in via Maqueda, ai due nipoti che l’ attendevano non potè nascondere la propria gioia.

“Tutto è andato secondo i voleri di Dio” esclamò compiaciuto; e non disse altro.

Tornato a Pollina, dove nessuno seppe del suo viaggio a Palermo e del suo colloquio con il legale del barone, continuò a cercare carte e documenti, certo ormai della bontà della causa e fiducioso nella riuscita dell’ impresa.

Due mesi dopo, il sette aprile, l’ aspra e dibattuta contesa che per sette anni aveva acceso gli animi della popolazione, trovava la sua composizione a Palermo, nel palazzo del barone, nella via Alloro.

Da Pollina, la mattina del tre aprile, su una mula di manto mirrino, per la seconda volta don Giuliano era partito alla volta di Palermo.

Lo accompagnavano dieci rappresentanti del popolo, esponenti delle famiglie più antiche, uomini tutti di esperienza e di retto sentire : Antonio Musotto, Giuseppe Collosi, Santi Tumminello, Giuliano Castiglia, Giuliano Raimondo, Santi Giambelluca, Giuseppe Maimone, Francesco Paolo Di Fatta, Antonio Cinquegrani e Giuseppe Marchese.

Confessati e comunicati tutti da Don Giuliano prima della partenza, montavano muli vigorosi, capaci di resistere ai tre giorni di dura marcia

Fecero la prima sosta per la colazione ai piedi della Rocca Pinnuta, sulla spianata del viottolo che si svolge attraverso il Cozzo Rizzino e che continua giù giù sino a Malpertugio , dopo avere attraversato il bosco di Capotremulo , di Magistrania e di Malpasso.

La comitiva era di lieto umore. Don Giuliano però se ne stava in disparte, pensieroso, in silenzio, come se andasse dentro di sé svolgendo le ragioni che avrebbero dovuto far trionfare il diritto del popolo pollinese nell’ imminente incontro di Palermo.

“Padre Don Giuliano”,  accostandoglisi con riverenza, gli domandò Antonio Musotto : “è vero che i nostri diritti sono fondati su atti e documenti?”.

“Si” rispose Don Giuliano, tirando fuori con circospezione e cautela un involucro di latta dal quale estrasse – insieme ad altre – una vecchia carta logora ed ingiallita dal tempo.

Si  trattava di un atto scritto in latino, datato 1561.

Don Giuliano spiegò l’ antico documento, inforcò gli occhiali, cercò avidamente con lo sguardo il punto più interessante, quello decisivo della questione, e lesse.

“Le terre sono nostre” concluse in tono soddisfatto, come se si fosse trovato dinnanzi al legale del barone, nel palazzo di via Alloro.

“Sono nostre, e quando non ci fossero gli atti, è dalla nostra parte una presunzione juris et de jure” ribadì con fermezza, riponendo con cura il documento dentro l’ involucro di latta.

Sostarono ancora  a Cefalù, Termini e Bagheria e giunsero infine a Palermo la sera del sei.

L’ indomani alle dieci in punto del mattino, rimessisi dalla fatica del lungo viaggio, si trovarono compatti in casa del barone, in via Alloro.

Il legale di casa Ventimiglia aveva già allineate davanti a sé, sul tavolo dello studio severo, carte e allegazioni e il barone gli sedeva accanto, con l’ aria altezzosa di chi sa di trovarsi in casa propria, forte dei privilegi che le leggi del tempo gli attribuivano.

Don Giuliano, dritto e composto nella persona, la fronte ampia e corrugata, lo sguardo vivo e penetrante, aveva subito impressionato il legale il quale, pur senza alcuna effusione, gli tese la mano e lo invitò a sedersi.

I dieci rappresentanti del popolo di Pollina rimasero in piedi, allineati, con la berretta in mano, intimiditi dagli sguardi severi degli antenati del barone, i cui ritratti austeri pendevano dalle pareti del grande studio.

Il legale invitò Don Giuliano ad esporre le proprie ragioni e il prete, senza scomporsi, con la consapevolezza di trovarsi dal lato della ragione, estrasse dalla tasca interna del giubbone i documenti accuratamente ordinati, inforcò gli occhiali e fece la sua relazione.

Fermò le date, le intestazioni dei documenti e i punti decisivi della questione; passò quindi alla illustrazione, usando toni ora sommessi ora accesi ma sempre fermo e composto nella voce e coerente nell’ argomentazione.

Fu preciso, misurato, evitò digressioni e ridondanze che lo avrebbero condotto al di là della tesi, giungendo infine - del tutto padrone di sé, della situazione e degli avversari - ad illustrare con lucidità e fermezza la proposizione dell’ atto del 1561, a ragione da lui ritenuto decisivo per il trionfo della sua tesi.

Il legale, che lo aveva ascoltato con particolare  attenzione, consapevole di trovarsi davanti ad un uomo determinato e dotato di grande acume, senza riuscire a dissimulare la sua preoccupazione, distese con le dita delle mani le rughe che gli si erano formate sulla fronte e, contraendosi leggermente sul seggiolone che scricchiolò sul pavimento : “ho inteso, reverendo”, lo interruppe finalmente. “I suoi documenti ne presuppongono però altri di cui il solo barone è in possesso e inoltre dimenticate i diritti concessi da Sua Maestà Serenissima dopo il 1560 alla nobiltà in Sicilia”.

“Noi li sconosciamo” rispose il prete con fermezza, guardando dritto negli occhi il legale, “e ammesso che esistono, li respingiamo, certi della loro mancanza di autenticità”.

“Che dite mai?” protestò irritato il legale, a corto di argomenti e ormai consapevole di difendere una causa ingiusta.

“Noi non cederemo mai!” gridò il barone alzandosi in piedi e battendo il pugno sul tavolo, paonazzo dall’ ira . “Faremo mettere a ferro e fuoco Pollina e imporremo il rispetto dei nostri diritti”.

“E noi ci difenderemo!” ribattè Don Giuliano, levandosi anch’ egli in piedi,  “a costo di tutto, perchè il popolo è invincibile quando Iddio è dalla sua parte!”.

“Siamo disposti a farci uccidere tutti” aggiunse Antonio Musotto, sulla cui spalla Don Giuliano, ritto in piedi, poggiava la mano.

“Tutti!” gridò Antonio Cinquegrani. “Si, tutti!” confermò Santi Giambelluca, mentre Santi Tumminello, eccitatissimo, con lo sguardo minaccioso rivolto ai ritratti che campeggiavano sulle pareti, gridava “Juris et de jure! E glielo diciamo in latino”.

Il legale ed il barone, le cui certezze imprevedibilmente ormai vacillavano, si ritirarono nella stanza attigua mentre Don Giuliano, fiero, in silenzio, le braccia incrociate sul petto, veniva circondato dai suoi compagni che commossi tentavano di baciargli le mani.

Trascorse poco più di mezz’ ora e finalmente il barone ed il legale fecero ritorno nello studio, proponendo di affidare la soluzione della vertenza al giudizio di Dio : avrebbe deciso del destino delle terre l’esito della sfida tra due campioni scelti quali rappresentanti delle due parti.

 A rappresentare il barone – così era stato già deciso - sarebbe stato Simone da Castelbuono, figlio di una castellana dei Ventimiglia.

“Accettiamo” dichiarò  Don Giuliano, “chè Iddio si serve spesso di mezzi umani per manifestare la sua volontà”.

Il giudizio però a Pollina - così pretese ed ottenne Don Giuliano - nel piano di San Francesco, il sette giugno alle ore 16,  arbitro il notaio Salvatore  Ferrigno da Cefalù.

Compiuta la missione, il giorno di San Giuliano il prete tenace e volitivo annunciò dal pulpito i termini dell’ accordo al popolo di Pollina, cui ora spettava indicare il suo rappresentante.

La scelta fu unanime. Un solo nome infatti fu subito sulle bocche di tutti : Morello.

Dunque Morello contro Simone, il popolo contro il barone, il diritto contro la forza, la giustizia contro la prepotenza.

“Morello sarà il vincitore” assicurò Don Giuliano. “ La sua vittoria restituirà al popolo di Pollina il possesso delle terre usurpate”.

E così il 7 giugno – proprio come aveva detto Mastro Giuliano nella sua bottega a Peppe Cangelosi - il Barone Ventimiglia, la moglie donna Vivalda e la figlia Margherita, scortati da venticinque campieri armati da capo a piedi, giungevano a Pollina, senza festeggiamenti ma  accolti dalla popolazione in forma composta ed austera, chè queste erano le disposizioni di

Don Giuliano Cassataro.

Alle 16 il piano di San Francesco rigurgitava di gente, chè non essendo ancora il tempo della mietitura, i contadini e le loro famiglie, compatti, non avevano voluto mancare all’ appuntamento con il grande avvenimento.

C’ era gente dappertutto, sui sassi, sui muri, lungo il viottolo. Nidiate di bambini affollavano i rami delle cento maestose querce secolari. Un delirio di rondini, cardellini, passeri, colombe coronava di voli le cime degli alberi.

Il barone, la moglie e la figlia avevano trovato posto su un palchetto che il comitato aveva allestito ai piedi della quercia più folta e robusta che protendeva sul piano i suoi rami contorti.

Donna Vivalda aveva voluto salutare Simone che, uscito dalla schiera dei campieri, ilare in volto, con passo svelto e leggero, si inchinò al cospetto della nobildonna.

All’ improvviso dalle bocche di tutti i presenti  si levò un grido commosso : “Viva San Giuliano!”.

La statua del gran Santo appariva già sulla strada che fiancheggia la Chiesa della Maddalena.

Peppe Gesuquantè e Giuliano Cortina diedero mano ai tamburi le cui note aspre e sorde si levarono nel cielo sereno del giugno biondo e promettente.

Quando il Santo fu nel mezzo del piano i giovani, scalzi e senza giacca - così come era costumanza - si piegarono, sostenendo la statua sulle mani e sulle ginocchia.

Don Giuliano Cassataro si fece allora innanzi, seguito da Padre Domenico, il monaco del convento di San Nicola, che vestiva i paramenti sacri e reggeva in mano l’ aspersorio.

Il momento fu solenne. Un silenzio misterioso, profondo, religioso dominò le cose e gli uomini.

Nel centro del piano apparvero Simone e Morello, l’ uno di fronte all’ altro. Simone agile e scattante, Morello muscoloso, dalle spalle quadrate e dall’ occhio di gazzella.

Erano entrambi col tronco nudo e una sciarpa cingeva i loro fianchi, gialla e con lo stemma dei Ventimiglia quella di Simone;  rossa e con lo stemma di San Giuliano quella di Morello.

Don Domenico, avvicinatosi ai due campioni, recitò una preghiera e li benedisse; quindi chiamò a sé l’ arbitro della sfida e lo fece impegnare sotto giuramento a deliberare secondo verità e giustizia.

Al segnale dell’ arbitro, mentre don Giuliano si raccoglieva in preghiera, ebbe inizio la lotta.

 I due campioni si mossero l’ uno contro l’ altro, con le braccia protese in avanti; si afferrarono per i polsi come per tastarsi, per misurarsi. Quindi, fulmineamente, eccoli uno avvinghiato all’ altro, quasi un solo corpo, impetuoso, agile, vigoroso.

Il groviglio non si rompe, si muove, si piega, si drizza.

Simone riesce ad un tratto a liberarsi dalla stretta avversaria e con grande agilità si slancia come un toro ferito contro Morello che vacilla, perde terreno, mentre la folla trepida, non fiata, trattiene il respiro.

Morello conosce l’ avversario e sa che il momento è decisivo; si tira indietro, si raccoglie, si disciplina e si lancia all’ assalto, così come aveva fatto contro il toro di Vignali.

Simone barcolla, si riprende, assalta a sua volta, è respinto, ritenta.

Morello resiste, rimane fermo, piantato sul terreno; quindi piglia l’ iniziativa; si sente di essere padrone del gioco e sferra un attacco poderoso lanciandosi contro Simone che si piega per poi cadere ad un nuovo assalto.

Morello gli è già addosso e lo inchioda al terreno, ferreo, pesante come un macigno.

“Simone è a terra!” grida l’ arbitro. “La lotta è finita!”. E dà il segnale.

“Evviva San Giuliano, Evviva Morello, Evviva Don Giuliano!” grida la folla in tumulto e il grido si trasforma in urla di gioia.

Il Santo è già sulle spalle dei giovani. I mortaretti scoppiano, fischiano, crepitano, si inseguono nell’ aria mentre i tamburi rullano all’ impazzata, in maniera confusa e disordinata.

“Le terre sono nostre, le terre sono nostre!” grida la gente. I contadini si abbracciano, le donne piangono di gioia e commozione mentre i bambini, rincorrendosi, gridano : “bella fu, bella fu”.

Don Giuliano Cassataro, dopo avere baciato il vincitore e recitato una preghiera di ringraziamento, si era premurato di fare firmare il verbale del giudizio dall’ arbitro e dal barone. Quindi si accomiatò da quest’ ultimo con un inchino composto e riverente.

Se il barone e donna Vivalda non riuscivano a mascherare il dolore e l’ amarezza della sconfitta, Margherita, la vergine della roccia nata a Pollina durante un soggiorno estivo di donna Vivalda, aveva le gote infocate e il cuore gonfio di segreta gioia.

Aveva vinto Morello, il giovane gagliardo e coraggioso, dall’ occhio di gazzella e dalla chioma folta e nera come le ali del corvo.

Che le importava delle terre che il padre aveva perdute per sempre? Non aveva ella una sera di agosto, vicino alla torre, dato in dono a Morello un fazzoletto ricamato in oro  perché si fosse sempre ricordato di Margherita, figlia si del barone Ventimiglia ma nata tra le rocce di Pollina?

Quando il Santo rientrò in Chiesa Don Giuliano era già sul pulpito; i rappresentanti del popolo sedevano sul banco dei giurati e Morello era in ginocchio ai piedi dell’ altare.

La Chiesa a memoria d’ uomo non era stata mai così gremita di gente. Molti erano rimasti accalcati fuori, sotto l’ arco del campanaro e lungo la strada.

Don Giuliano si levò a parlare quando il Santo fu già sull’ altare  e pronunciò commosse parole di profondo ringraziamento a San Giuliano che si era servito del coraggio e della forza di Morello per manifestare la propria volontà.

Più tardi si cantò il Te Deum e le campane della Matrice, di Sant’ Antonio, della Maddalena, di San Pietro, di San Gaetano e dell’ Annunziata suonarono per tre giorni a distesa.

Gioia di popolo!

Erano trascorsi circa due mesi da quegli avvenimenti quando, dapprima confusa e incerta, poi chiara e fondata, si sparse nel paese la voce che Morello era scomparso.

L’ eco della voce si amplificò e diffuse rapidamente di casa in casa, tra i contadini, nelle campagne; con i mulattieri giunse fino a  Cefalù e Castelbuono e con i mandriani e i pastori attraversò le valli per risalire lungo le montagne.

In ogni casa, in ogni chiesa, in ogni angolo dilagò la notizia e si fece strada il sospetto prima e la convinzione poi che gli autori della sparizione non potevano che essere gli sgherri del barone.

I sospetti furono confermati da Anna Maria, la moglie di Onofrio Cangelosi, che giurò di avere visto per l’ ultima volta Morello in via Castello, non lontano dalle case di don Giuliano Cassataro, confabulare con tre campieri del marchese.

Don Giuliano, dal quale tutti volevano sapere, non si diede pace e organizzò ricerche accurate nel territorio di Pollina e nei paesi vicini, ma senza alcun risultato: di Morello nessuna notizia. Sembrava che fosse stato inghiottito dal nulla.

Ma all’ alba del sette agosto i contadini che si accingevano a recarsi nelle campagne e le donne che si dirigevano alla Chiesa della Maddalena per la messa mattutina udirono un tonfo, un rumore sordo e sinistro, come di un corpo precipitato dall’ alto, provenire dalla torre, quella posta sulla cima del Trappitello, quella agile e snella, protesa sulle pendici della Via Nuova.

In tanti accorsero, come guidati da un terribile presentimento destinato a divenire presto tragica realtà.

Era di Morello infatti il corpo precipitato dalla torre e che giaceva ora senza vita, disteso sul selciato. Accanto al corpo un fazzoletto di fine pizzo, riccamente ricamato in oro, sfuggito dalla mano ancora socchiusa del giovane, di cui, nella concitazione del momento, nessuno si accorse e che la brezza mattutina lievemente sospinse tra le rocce, giù nella valle.

Il corpo fu amorevolmente raccolto e trasportato nella Chiesa della Maddalena dove fu pietosamente deposto.

La voce del ritrovamento fece in un baleno il giro del paese e in pochissimo tempo tutti si riversarono in chiesa.

Don Giuliano fu tra i primi a giungervi.

Sopraffatto dal dolore e dall’ angoscia si chinò sul corpo privo di vita e baciò, tra le lacrime, la fronte del giovane.

“Iddio punirà i delitti” tuonò per poi raccogliersi in preghiera.

Ebbe esequie solenni Morello e la popolazione tutta partecipò commossa.

Suonarono a morto per tre giorni interi  le campane di tutte le chiese.

Della torre antica - divenuta per tutti la torre di Morello – in cui il barone Ventimiglia aveva fatto rinchiudere il giovane e dalla quale questi, dopo tre mesi di segregazione, era precipitato nel tentativo di fuggire, non rimangono oggi che i malinconici ruderi, a testimoniare il sacrificio per l’ affermazione del diritto e della giustizia sul privilegio e la prepotenza.