Trame e metodi da Inquisizione alla Corte di Giustizia Vescovile di Cefalù nel XVIII secolo

Ritratto di Carlo La Calce

3 Gennaio 2019, 10:02 - Carlo La Calce   [suoi interventi e commenti]

Versione stampabileInvia per email

Trame e metodi da Inquisizione alla Corte di Giustizia Vescovile di Cefalù nel XVIII secolo

La terribile calunnia addossata al Sacerdote D. Onofrio Manzella con falsità di Processo

 

 

Quando una fredda mattina del dicembre 1745 il Giudice della Monarchia, a Palermo, si ritrovò tra le mani le carte trasmessegli da Monsignor Domenico Valguarnera, Vescovo di Cefalù, e vi lesse la sentenza emessa dalla Gran Corte Vescovile della cittadina normanna nei confronti del Reverendo Dr D. Onofrio Manzella, superato l’iniziale momento di sconcerto per la gravità dell’ imputazione, rimase dubbioso e perplesso.

Il Manzella, Sacerdote retto e da tutti stimato, era stato infatti ritenuto colpevole di avere abusato di Angela Di Giorgio - a Cefalù a tutti nota come la “Catatonica” - di averla messa incinta e di averla successivamente spinta ad abortire.

Ad inchiodare il religioso le ammissioni della stessa Di Giorgio e la testimonianza resa da Vincenzo Puleo, servitore di D. Onofrio.

Conoscendo Monsignor  Valguarnera e sapendo di che cosa il Prelato era capace, dubitando della versione ufficiale dei fatti, D. Alfonso Fernandez de Medrano - questo il nome del Giudice della  Monarchia - decise prudentemente di approfondire la vicenda prima di trarre conclusioni definitive e di prendere i necessari provvedimenti.

Incaricò quindi di svolgere accurate indagini sugli avvenimenti il Padre Vincenzo Paola, Maestro Predicatore dell’Insigne Ordine di S. Domenico, “uomo di sperimentata santità”, il quale fece condurre la Di Giorgio - impegnata in quei giorni nel feudo Guglielmotta, in territorio di Castelbuono, per la raccolta delle olive - nel Convento dei Domenicani, a Cefalù, per interrogarla.

Fra Vincenzo ascoltò con molta attenzione, alla presenza del Delegato della Monarchia, Canonico D. Valentino Ortolani, e del Regio Maestro Notaro Maurizio Giardina, la sorprendente versione fornita dalla donna: in piena notte erano venuti a prelevarla con la forza a casa gli “Officiali” della Corte Vescovile e, legata, l’avevano portata via.

Dal Maestro Notaro della Gran Corte, il Sacerdote D. Giovanni Carta, minacciata di essere trascinata e frustata, con il capo rasato, per le strade della città (questo il trattamento riservato un mese prima ad Innocenza Barracato, donna impudica, ricordò perfidamente il Mastro Notaro) e di essere infine rinchiusa in un angusto e lercio “dammuso” delle carceri vescovili, era stata costretta – nonostante la sua disperata resistenza – ad ammettere di “avere avuto commercio carnale” con D. Onofrio Manzella, di essere rimasta incinta e di essere stata incitata dal Sacerdote ad abortire.

Aggiunse la “Catatonica”  che anche la testimonianza di Vincenzo Puleo, servitore del Manzella, utilizzata a sostegno dell’ accusa, era stata estorta al giovane garzone con la violenza e le minacce ed infine, con orgoglio, a testa alta, concluse che lei una femmina onesta era sempre stata e che “commercio carnale” lei nella sua vita non ne aveva avuto né con D. Onofrio né con nessun altro ed era pronta a dimostrarlo.

E che Angela Di Giorgio fosse “intatta, vergine, non violata e di niun modo macchiata” fu certificato con relazione giurata da quattro note “mammane” a Cefalù e confermato - come se non bastasse - successivamente da Anna Maria Celestri e Nunzia Ferrara, rinomate ostetriche, a Palermo.

Dunque, senza ombra di dubbio, nei confronti del Manzella solo ignominiose, infamanti calunnie ed uno scandaloso processo di stampo inquisitorio, in palese violazione della giurisdizione regia, fondato esclusivamente su menzogne e false testimonianze.

Ma che cosa aveva spinto il Vescovo a ordire una simile trama?

Sua Eminenza - non faceva nulla per nasconderlo - non vedeva di buon occhio quei religiosi della diocesi che si erano resi “esenti” dalla ordinaria giurisdizione ecclesiastica per sottoporsi all’autorità del Tribunale della Monarchia e l’astio che aveva concepito  nei loro confronti era presto giunto a tramutarsi in irrefrenabile odio.

L’esemplare condanna di D. Onofrio Manzella, esponente proprio di quel gruppo di Sacerdoti “ribelli” e insofferenti al dispotismo di Monsignor Valguarnera, avrebbe costituito un monito severo per tutto il clero, scoraggiando il passaggio alla giurisdizione di quell’ingombrante e odiato Tribunale Regio di cui il Vescovo, sentendo minacciati  il suo potere e la sua autonomia, avrebbe ambito a sbarazzarsi.

 

Note

Il modello processuale adottato dal Tribunale dell’Inquisizione fu quello di tipo inquisitorio (contrapposto al modello accusatorio, previsto dal diritto romano), fondato essenzialmente sul principio di autorità, in base al quale tutte le funzioni - di giudice, di accusatore e di difensore dell’imputato - erano concentrate in un unico soggetto, il soggetto inquirente, cui spettava il compito di accertamento della verità.
Il processo, iniziato d’ufficio dal giudice-inquisitore, non prevedeva dunque né querela di parte  né contraddittorio.

La vicenda è integralmente tratta da: La fedelissima Città di Cefalù contro il Vescovo Domenico Valguarnera, Michele Giordano, 1746