Martinazzi se n’e’ andato!

Ritratto di Giuseppe Maggiore

21 Agosto 2019, 10:54 - Giuseppe Maggiore   [suoi interventi e commenti]

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MARTINAZZI  SE  N’E’  ANDATO!

(ricordo d’un Amico)

 

Rompo accoratamente per la seconda volta in questa afosa estate l’intrapreso vacanziero silenzio lessicale per commemorare il mio secondo caro amico che ci lascia dopo la dipartita, lo scorso Luglio, di Saro Ilardo.

Martinazzi se n’è andato”. Così mi ha detto Miriam, la sorella di Salvatore, con un lieve sorriso che voleva dimostrarsi autoconsolatorio, quando l’altro ieri in chiesa, per i funerali del fratello, le ho fatto le condoglianze.

Qui voglio ricordare l’Amico, focalizzando i reciproci momenti più lieti della nostra amistà; una specie di backstage al positivo, un coacervo di flashback dalla particolare espressività che evidenzino la semplicità di un personaggio ricco di humor stigmatizzato nei suoi più immediati rapporti umani, il suo relazionarsi senza preconcetti di forma o di sostanza, infingimenti, prese di posizione o quant’altro e volutamente sorvolando sugli aspetti meno elegiaci che la vita non ha mancato di tributargli.

L’avevo denominato Martinazzi da tempo immemorabile, da quando addirittura eravamo ragazzi; e questo nomignolo, appellativo, sinonimo, mnemonica caratterizzante connotazione, aveva preso piede nell’accezione comune familiare ed amicale e gli era rimasto attaccato come un blasone nobiliare sovrastante il portone d’ingresso d’un istoriato palazzo d’epoca.

Al punto che molti anni fa, lui telefonando a casa mia, “… sono Salvatore…”, e mia moglie, soprapensiero, non riconoscendolo né dalla voce né dal nome profferto, Egli stesso si qualificò con noncuranza: … Martinazzi sono”.

Ma l’affettuosa amichevole e fraterna denominazione attribuitagli e dallo Stesso cordialmente accettata adombra quella del Dr. Salvatore Martino, magistrato emerito, uomo buono e coltissimo con una memoria storica delle più rispettabili, padre e marito integerrimo ed esemplare.

Circa la sua carriera professionale con le varie tappe che ne hanno costellato l’apprezzabile ascesa, lascio volentieri e giustamente agli appartenenti al settore il compito di elencarne i tratti; per sommi capi so soltanto, se non vado errato, che  fu Pretore a Lipari, Sostituto Procuratore della Repubblica a Milano ed a Mistretta.

Negli anni ′90 fu relatore di una importante conferenza sul nuovo codice penale tenuta nei locali del seminario di Cefalù alla presenza di personalità di spicco nel campo della religione, della docenza, della magistratura e dell’Arma dei Carabinieri. Volle che io ve lo accompagnassi e per tale motivo passò da casa mia per tempo ed assieme, poi, raggiungemmo il luogo del convegno.

Tutto ciò per quanto attiene alla sua presenza nel sociale; nel privato, e per ciò che mi concerne, i ricordi si raddoppiano, si moltiplicano, si centuplicano, tanto da non poter essere compresi tutti in questo breve riassunto.

Frequentammo assieme la 1ª media sotto la guida dell’Insegnante di lettere Sig.na Guagliardo e della Prof.ssa Li Gotti per la matematica.

Durante una lezione di quest’ultima ricordo che venimmo interrogati ben sette ragazzi ed uno dopo l’altro ci recammo alla cattedra dichiarando di essere impreparati; mentre lui, preparatissimo come sempre, interrogato a sua volta e recandosi alla lavagna, commentò ironicamente: “Oggi, qui, c’è il viavai”.

Era il primo della classe. Poi le nostre strade si divisero perché lui andò avanti ed io ripetei l’anno, appunto per la matematica che non ho potuto mai digerire; tanto che per tutto l’excursus scolastico, ad eccezione del secondo e terzo liceo (anni in cui fui promosso a Giugno), me la conservai  sempre per Settembre studiandola in estate con un pedagogo ad personam, il Prof. Mario Sarrica, di felice memoria.

Salvatore, o meglio, Martinazzi, mi fu amico fraterno da sempre, compagno di “merende”, di gite, di risate, nonché parente.

Quest’ultima qualificazione, tuttavia, è molto aleatoria: dipende dal fatto che mia madre fosse una Martino; ma in realtà la pluralità dei rami dinastici della prosapia faceva perdere la parentela nella notte dei tempi.

Per affetto e reciproca stima familiare ci sentivamo più che parenti, comunque.

Pressoché coetanei (avevo solo 4 mesi più di lui) eravamo sostanzialmente e soprattutto, come ho accennato sopra, Amici inseparabili, con la “A” maiuscola.

Ricordi ad iosa mentre scrivo continuano ad affollare la mia mente.

Partiamo dal fatto che non potevamo partecipare, sin da giovanissimi, a qualsiasi funzione pubblica solenne, sia essa stata un funerale, un matrimonio, un convegno scolastico, una conferenza o quant’altro, senza che, osservando le facce degli astanti e rilevandone determinate atipiche caratteristiche somatiche, non fossimo presi da una ilarità improvvisa sconcertante che ci costringeva ad allontanarci, seduta stante, dal luogo dell’assembramento. Bastava guardarci in viso dopo aver osservato gli altri ed il riso scoppiava implacabile ed irrefrenabile e presto si trasformava quasi in isterismo.

Tutto cominciò seguendo il funerale di suo nonno Turiddu (avevamo 8 anni, circa) in seconda fila; lui molto compunto ed io, trovandomi per la prima volta nella importante situazione di dover sostenere moralmente qualcuno, tenendogli il braccio cercavo con parole acconce di confortarlo in quel difficile momento di supposta malinconìa. Quando, ad un tratto, imprevedibilmente, mi diede una gomitata. Lo fissai frastornato e lui, sottovoce e con aria complice, mi disse: “Guarda che faccia che ha quello a destra nella terza fila”.

Mi voltai con studiata noncuranza, individuai il tizio indicatomi, un tale completamente estraneo alla famiglia, e potei constatare che il suo sembiante smunto da becchino mostrava un intenso atteggiamento da circostanza degno di miglior causa, quasi fosse un parente stretto del defunto.

Finì la compunzione e per l’intervenuta ilarità passammo dalla seconda all’ultima fila.

E che dire degli spuntini consumati nella mia campagna, al Granato, quando, appena entrato in pensione, vi andavo per diporto a deliziami nella costruzione di qualche piccolo manufatto in muratura (questa, oltre al cinema, è stata sempre la mia seconda passione).

Sapendo che mi trovavo lì, lui mi telefonava: “Vengo con le vettovaglie…” annunziava. E dopo un poco mi raggiungeva portando pane e salame ed entrambi, masticando a due palmenti, trascorrevamo la mattinata cianciando su tutto e su tutti in piena libertà di pensiero e d’argomenti.

A volte, però, dissertavamo seriosamente su scabrosi problemi dell’esistenza.

Una tematica che teneva ciclicamente banco nei nostri conversari era quella del post mortem; se, ad esempio, appena deceduti, il cervello continuasse per qualche tempo a partorire evanescenti  stravaganti sogni oppure si bloccasse di colpo facendoci ritornare allo stesso originale nulla in cui gravitavamo prima della nascita; o se, effettivamente, una vita spirituale fosse razionalmente possibile nell’ Aldilà.

Ma subito, queste ipotesi elucubranti cedevano il passo a visioni e considerazioni più attinenti alla nostra giovane età e ci riimmergevamo nella leziosità della ciancia.

Lui era cattolico, praticante. Io vagavo e vago nell’infido limbo di una perenne sobria incertezza.

Insomma, a dirla tutta, ci comportavamo con la mentalità tanto ben descritta da Ferenc Molnàr nel suo bel libro “I ragazzi della via Pàl”; od in quell’altro, “Minuzzolo”, dell’indimenticabile Carlo Collodi: ameni testi indubbiamente formativi ormai quasi o del tutto sconosciuti fra la leva giovanile.

Quando nel ′55 conseguì la maturità classica, un anno prima di me, venne a trovarmi a mare. Si era alla fine di Giugno e mi trovavo a sguazzare a poca distanza dalla battigia dinanzi alla spiaggia di Cefalù. Vedendomi in acqua, per la gioia di aver superato brillantemente quel difficile varco scolastico si tuffò tutto vestito raggiungendomi. Conservo ancora un’istantanea dell’evento fatta da un terzo non so chi, ma per quanto l’abbia cercata non sono riuscito a trovarla per allegarla qui.

Amava la fotografìa e possedeva una macchina fotografica, marca “Perla”, con una dotazione di filtri dal giallo paglierino al rosso (inusuale per un semplice ragazzo dilettante), che usava ad ogni dipresso e soprattutto in occasione di passeggiate scolastiche o di avvenimenti sociali e sportivi.

E poi era un patito dell’automobile.

La sua guida era scattante, a tratti spericolata ma sicura (bisogna tener presente che allora la circolazione non era così caotica come lo è oggi) e spesso facevamo delle gite andando a pranzare di qua e di là a volte sfruttando il credito che mio padre, medico, aveva nel circondario fra parenti amici e conoscenti. Altre  volte, a zonzo, partivamo con la sua macchina senza una meta fissa e, raggiungendo caratteristici paesi madoniti, pranzavamo in siti e locali sconosciuti.

Era solito eseguire dei virtuosismi automobilistici eseguendo accelerate improvvise, sterzate repentine e quant’altro; acrobazie che spesso mi causavano l’antipatica sensazione del cuore in gola. Motivo per cui  lo minacciavo di scendere dall’auto se avesse persistito nelle sue gincane.

Una volta ricordo che ci recammo a pranzare dai monaci a Gibilmanna (avevamo sì e no 14 anni), che, per istintiva bontà o perché fossero clienti di mio padre, ci offersero un sano lauto  pasto; ed altra volta ad Isnello in casa del Dr. Alcamisi, pure sodale di mio padre, che ci ricevette con la massima cortesìa.

Ricordo un particolare imbarazzante occorsoci a quel desco durante il pranzo a cui immancabilmente fummo invitati: presente tutta famiglia dell’anfitrione costituita dallo stesso dottore (ancora, tuttavia, laureando in medicina), da due fratelli dello stesso, da una sorella col marito carabiniere e dai suoi genitori, sfoderando noi tutta la massima educazione acquisita, fui turbato da un rumore di sega che proveniva dal mio lato sinistro dove stava seduto lui, Martinazzi.

Incuriosito diedi uno sguardo al mio detto lato e vidi che Martinazzi, impegnandosi alacremente con coltello e forchetta, tentava di spolpare un osso di pollo che aveva nel piatto; ad un tratto l’osso schizzò dalle posate ed andò a colpire al petto il padrone di casa, l’anziano padre dell’Alcamisi. A quel punto, incoraggiati da una corale sincera risata, noi lasciammo perdere le posate e le buone maniere e continuammo a spolpare l’osso tenendolo con le mani.

Vi andammo con la corriera ed al ritorno facemmo a piedi la strada da Isnello a Gibilmanna e qui riprendemmo, poi, l’autobus per Cefalù.

Da grandi e navigati, e qui parlo di una ventina di anni fa, raggiungemmo  S. Marco D’Alunzio. Visitammo il convento retto allora da Padre Emilio (che era stato a Gibilmanna e che figurò nei miei film “Week End” ed “Oremus”) ed andammo, poi, a pranzare in un locale costiero di S. Agata dove una camerierina dai verdi dolci occhi, tutta pepe ed ancheggiamenti, entrata relativamente in confidenza con noi ci espresse il desiderio della sua vita che era quello di poter venire a lavorare a Cefalù.

A noi non difettava la fantasìa e progettavamo sempre nuove gite, nuove imprese con l’intento specifico di raggiungere e visitare nuovi siti.

Ancora da ragazzi (15 anni, circa), in estate, trovandoci a villeggiare ad un dipresso in quel di S. Lucia, andavamo la sera al cinema, all’allora “Arena Micciché” o all’“Arena Graziella”, in bicicletta. Lui aveva una pedalata formidabile ed in breve si distanziava dal mio mezzo con solo due affondi.

Altra volta utilizzavamo solo la sua bicicletta, me seduto di spalle sul manubrio.

Come non siamo periti entrambi in quel periodo per qualche imprevista caduta non lo so; eppure una volta, proseguendo allato, di fronte all’antico bar di PeppIno De Gaetani ebbimo un incidente: i manubri delle nostre biciclette si scontrarono ed andammo a finire entrambi a terra planando sul brecciolino del fondo stradale. Atterrando, ci ferimmo le mani ed inondammo di sangue i lavandini del locale del De Gaetani dove ci rifugiammo ammaccati e dolenti; e ricordo che a casa io feci per la prima volta un’antitetanica. Lui se ne fregò altamente, come mi disse poi, e non fece niente.

A 16 anni prendemmo entrambi una cotta per la stessa ragazza, una figurina esile ma dotata, con i capelli d’un biondo fulvo. Frequentava una classe indietro alla mia nello stesso ginnasio ed attesa la florida posizione economica del padre si dava delle arie da gran donna dai gusti raffinati e teneva sempre circolo con ragazzi più grandi di lei vestendo alla moda in maniera molto elaborata.

Ciò paralizzava il nostro giovanile ardimento; sicché, indecisi e timorosi di uscire allo scoperto e dichiararci (allora persisteva la famosa “dichiarazione”, primo ineludibile passo per cercare di conquistare un coetaneo cuore femminile), discutevamo sulle possibili azioni da intentare per arrivare al dunque; ed ogni mattina, di comune accordo ma intimamente gelosi l’uno dell’altro, le facevamo la posta in due diversi punti della strada che conduceva alla scuola senza, tuttavia, osare  fermarla e parlarle. Tanto che alla fine fu un terzo più grande di noi due a conquistarla ed a godersela lasciandoci delusi con un palmo di naso. Oggi lei è una decrepita vedova, relitto di trascorse lungimiranti speranze.

Martinazzi fece anche parte di un paio dei miei primi filmati. Era, inoltre, un appassionato della barca a vela. Ne possedeva una che, raggiunta la maggiore età, sportivamente usava; aveva anche un sandolino di legno col quale una volta naufragammo per il forte ridere a qualche centinaio di metri dalla costa con un mare calmissimo. Fummo costretti a spingere a nuoto il natante capovolto sino alla salvifica spiaggia.

Spesso me lo prestava per andare sotto le finestre della mia innamorata del tempo, la cui abitazione si trovava sulla scogliera dietro il molo.

Espertissimo in gastronomia insegnò a Katy, mia moglie, svariate ricette di marmellate fatte con i limoni ed altra frutta che lui produceva in abbondanza nella sua proprietà alla Gallizza e che con affettuosa prodigalità spesso mi regalava in quantità tale che se avessi voluto aprire un negozio di frutta e verdura non avrei di certo avuto problemi di sorta.

Caro Salvatore, caro Martinazzi, anche tu te ne sei andato come tanti altri nostri compagni di scuola e amici. In un mondo migliore? Chi lo sa.

Mi mancherà il tuo brio, la tua intelligenza, la tua cultura, il tuo saperti Amico, le tue telefonate e, in modo particolare, le tue risate. Mi restano i ricordi, alcuni dei quali ho sopra elencato, ma che, comunque, non assolvono a colmare il profondo vuoto della tua assenza.

Cefalù, 21 Agosto  2019

                                                                  Pippo Maggiore