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12 Aprile 2020, 16:31 - Angelo Sciortino [suoi interventi e commenti] |


La foto pubblicata dalla testata locale a corredo del suo articolo
Carlo Levi titolava un’opera, dedicata alla denuncia della condizione sociale nella Sicilia del suo tempo: “Le parole sono pietre”. Un’espressione forte, assertiva, che ha presto sciolto il legame diretto col testo per assumere valenza polisemica. Le parole hanno un peso, una forza propria. Chi le maneggia deve essere cosciente della responsabilità che assume nel farlo, in particolare se esse sono destinate a influenzare i destinatari che, nel nostro caso, sono i lettori.
Chi assume l’onere di cimentarsi nell’esercizio dell’opinione dovrebbe mantenersi in rotta con la stella polare che è la corrispondenza biunivoca della parola, da un verso, al suo significato, all’etimo, dall’altro alla realtà sottostante che intende rappresentare. È, tuttavia, vero che uno dei mali del nostro presente sia costituito dall’uso leggero, superficiale, talvolta spregiudicato, delle parole, sul presupposto che esse siano agevolmente intercambiabili in base alla reazione emotiva di chi le riceve. E per questa pessima abitudine indiziati, insieme ai politici, sono i cosiddetti “opinionisti”. Quando si scrive per cercare di procurarsi tifoserie niente di più facile che manomettere la valenza semantica delle parole per farne corpi contundenti con cui colpire i lettori. Senza troppo riflettere sulle conseguenze di certi usi disinvolti di esse. Appunto, parole come pietre. Che se scagliate a sproposito fanno male, rovinano esistenze, distruggono reputazioni, inquietano, allarmano, creano disordine. Insomma, il peggio che dà fondamento di verità a un proverbio antico per il quale “Ne uccide più la penna che la spada”.
E ora giudichiamo, in questa luce, il seguente titolo di un articolo pubblicato ieri su una testata locale: Cefalù, polmoniti anomale al Giglio: la lettera denuncia pervenuta alla redazione.
Intanto il plurale, polmoniti. Poi l'aggettivo, anomale. Che cosa può pensare il lettore, leggendo? Se poi aggiungiamo il testo della lettera dalla quale il giornalista prende le mosse, la cattiva informazione dilaga. Se quella lettera dice il vero, non capisco perché il suo estensore non l'ha presentata alle Autorità Giudiziarie, sollecitando le indagini, e ha scelto invece di farla pervenire a una testata giornalistica, che non ha il compito di svolgerle tali indagini.
È così che il meccanismo innescato dalla notizia dell’insorgere della malattia, lasciando intendere una sua possibile diffusione, prima epidemica poi pandemica, si conclude in un insolito cortocircuito. Non v’era alcun bisogno, dunque, di provocare allarmismo, giacché ciascun lettore mediamente intelligente è consapevole di essere messo di fronte a un problema, per il quale non è attrezzato a rispondere.
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Commenti
Tempi sbagliati???
Caro Giovanni,ricordo bene l
Caro Giovanni,
ricordo bene l'articolo, al quale ti riferisci, e soprattutto la conclusione, che hai avuto la bontà di riportare. La ricordo e la confermo. Dubito, però, che essa possa ritenersi pertinente con l'articolo che commenti. Esso riguarda un modo scandalistico di riportare fatti non provati, per i quali le indagini spettano soltanto all'Autorità Giudiziaria. La stampa, e chi per essa scrive, non può né deve riportare dicerie, ma fatti incontrovertibili. Nel caso da me descritto nell'intervento, al quale hai avuto la bontà di richiamarti, i fatti erano incontrovertibili e invece di esprimere un giudizio di condanna, ho preferito sollecitare la direzione dell'ospedale di chiarire; in questo caso, invece, non sono stati chiesti chiarimenti e si è preferito emettere una personale sentenza di condanna in forza di dicerie, scavalcando l'Autorità Giudiziaria, che ne avrebbe potuto accertare la sussistenza.