Per ricordare Luca Serianni.

Ritratto di Angelo Sciortino

29 Luglio 2022, 21:38 - Angelo Sciortino   [suoi interventi e commenti]

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Luca Serianni, investito mentre attraversava la strada sulle strisce pedonali pochi giorni fa e morto il giorno dopo, fu grande linguista e grande didatta, modello di civismo e di senso dello Stato, avvertiva come compito decisivo quello di consegnare alle nuove generazioni gli strumenti per conoscere e padroneggiare la lingua italiana, materna o acquisita, nella più vasta, differenziata e stratificata varietà dei suoi usi.

«Limitarsi alle 2000 parole del lessico fondamentale permette di sopravvivere nell'uso quotidiano, ma è troppo poco per accedere a un qualsiasi sapere avanzato: proprio quello su cui, in diversa misura e con diversi obiettivi, puntano le scuole superiori, nessuna esclusa». Così Serianni concludeva qualche anno fa (2016) uno dei suoi numerosi interventi pubblicati in Lingua italiana-Treccani.it, che qui scelgo di proporre in sua memoria, perché mi sembra che riconfermi con nitidezza il profilo del linguista come grande italiano maestro di civiltà e di pedagogia, colto nell’atto di illustrare con sintesi stringente la centralità dell’educazione linguistica a scuola come momento fondativo di educazione e addestramento alla cittadinanza adulta.

 

Chi abbia a che fare, direttamente o indirettamente, con adolescenti scolarizzati avrà notato come il lessico che esula da quello comunemente usato nella lingua parlata stia regredendo in modo preoccupante.

Qualche giorno fa un'insegnante di lettere in un liceo classico mi ha raccontato un aneddoto istruttivo. Questa mia amica ha l'ottima abitudine di assegnare versioni di latino in classe senza vocabolario, naturalmente con la possibilità che l'alunno chieda lumi su forme meno comuni. Un ragazzo (primo anno) le ha chiesto che cosa volesse dire cingebant. «Ragionaci un po' su: che cosa ti dice l'uscita in -ebant?». «Che è un imperfetto». «Giusto! Prova a immaginare quale sia il presente». «Forse cingo?». «Certo!». Ma l'alunno, che mi si dice essere bravo, continuava a restare perplesso: il problema non era il latino, ma l'italiano; per lui cingere era un verbo misterioso. Un anno fa in un esame di Stato un candidato aveva presentato come "tesina" un lavoro su Senilità di Italo Svevo. «Che cosa vuol dire senilità?». Si badi: non si chiedeva perché abbia questo titolo un romanzo in cui di veri e propri "vecchi" non ce ne sono (il protagonista, Emilio Brentani, ha 35 anni), né altri dati che presuppongono almeno la lettura del testo. No: semplicemente che cosa vuol dire in italiano una parola non esattamente libresca come senilità: scena muta.

Che cosa si può capire, partendo da un bagaglio lessicale così lacunoso, di un editoriale, ma anche di un libro di testo delle superiori o, passando all'università, di un manuale di diritto? Possiamo davvero pensare che un diciottenne che non sappia raccapezzarsi nella sua madrelingua appena si affrontino argomenti di gittata non quotidiana o si ricorra a un lessico meno comune possa davvero essere considerato un cittadino maturo? A diciotto anni, ricordiamolo, si vota, si può conseguire la patente di guida, si è pienamente responsabili dal punto di vista penale, anche se si continua, e si continuerà per un pezzo, a essere designati come ragazzi.

Le eccezioni non mancano, naturalmente. Nelle scuole con una robusta componente letterario-filosofica, in particolare nei licei classici e scientifici, una certa osmosi tra i testi studiati in classe e la padronanza linguistica che se ne acquisisce normalmente si produce (a parte il quindicenne che non sapeva cosa vuol dire cingere). Ma dobbiamo pensare soprattutto agli istituti tecnici e professionali (e aggiungerei: ai licei delle scienze sociali), che rappresentano il nerbo dell'istruzione superiore, interessando la metà degli alunni totali della secondaria superiore.

Quali i rimedi? Esortare alla lettura disinteressata non basta e, guardando all'appiattimento sul parlato proprio di tanta narrativa contemporanea (legittima scelta espressiva, si capisce), forse neppure gioverebbe.

Occorre riorientare l'ora d'italiano, deprimendo la grammatica, o più precisamente il grammaticalismo fine a sé stesso, a vantaggio del lessico. Qualsiasi attività didattica si fonda su una scelta, su una gerarchia di cose da insegnare (o, se si vuole, di competenze da raggiungere). È davvero così importante distinguere tra preposizioni proprie e improprie, tra avverbi di modo, di quantità, di giudizio, o perdersi nella selva di complementi indiretti del tutto secondari (di pena, di stima, ma anche di denominazione, di causa efficiente, di limitazione)? Non è forse più produttivo approfondire lessico e semantica?

Mi pare più produttivo assicurarsi che siano chiari i diversi presupposti linguistici e ideologici che ci portano a distinguere tra stipendio, salario e onorario; o le combinazioni lessicali (le "collocazioni" come si dice con un termine non molto felice) che ci permettono di usare in modo appropriato sequenze di verbo + nome (si celebra un processo in senso proprio, si fa un processo alle intenzioni in senso estensivo) o di aggettivo + nome (una persona misurata o moderata nel bere è solo da apprezzare, ma se diciamo che qualcuno è morigerato lo presentiamo con una sfumatura ironica o almeno di distacco).

E ancora: bisognerebbe che ogni adolescente sapesse muoversi nelle serie che presentano suppletivismo, ossia ricorrono a radici diverse tra parola base e aggettivo di relazione: cavallo/equino (cavallino è di uso semanticamente ristretto: un viso cavallino, stretto e allungato), acqua/idrico (una minestra può essere acquosa, il vapore è acqueo, ma le risorse di un territorio non sono né acquose né acquee bensì idriche), fegato/epatico (fegatoso, raro, si direbbe solo di qualcuno rancoroso, collerico, astioso). Oppure tra famiglie di corradicali, dominandone i diversi significati: flettere vuol dire 'piegare' ed è di uso elettivo in àmbito tecnico (medicina, scienze motorie: si flette un arto); deflettere vuol dire 'piegare rispetto a una precedente direzione' ed è formato col prefisso de-, che indica allontanamento, separazione, movimento dall'alto in basso (come in porre/deporre, congestionare/decongestionare, fluire/defluire); riflettere vuol dire 'rimandare indietro' la luce o un'immagine o, figuratamente, 'concentrarsi, quasi piegarsi su di sé per meditare' (rifletteva sull'accaduto).

In questi due ultimi casi lo studio del latino (e del greco), certamente aiuta, però non è affatto indispensabile: tutti, ma davvero tutti, gli adolescenti scolarizzati dovrebbero raggiungere sicurezza in questa zona della lingua. Limitarsi alle 2000 parole del lessico fondamentale permette di sopravvivere nell'uso quotidiano, ma è troppo poco per accedere a un qualsiasi sapere avanzato: proprio quello su cui, in diversa misura e con diversi obiettivi, puntano le scuole superiori, nessuna esclusa.