L'abballata del Mandralisca, parte quarta (una pausa)

Ritratto di Totò Testa

16 Gennaio 2014, 13:15 - Totò Testa   [suoi interventi e commenti]

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Dopo i primi tre episodi de “L’abballata” (il prologo, lo scenario, ….) mi ero promesso di cominciare a scrivere di strategie, di programmi, di progetti, ma ancora non mi sento pronto.

Non mi sento pronto perché parlare di strategie “dall’esterno” e senza avvertire alcuna volontà d’ascolto da parte di chi le strategie dovrebbe, sì, definirle e metterle in pratica, non è esercizio facile.

Bisogna, infatti, pesare le parole, declinare bene i concetti, e dosare bene anche gli accenti, per non esporsi al duplice rischio:

a)  di esporsi alle invettive dei nichilisti dell’assoluto relativo, i quali ritengono che il frutto del pensiero di altri non può che essere un errore di natura o di un parto diabolico, datosi che il loro cervello di probi, impegnati e competenti attori non produce nulla di tutto ciò;

b)  di destare l’attenzione delle orecchie adunche dei metabolizzatori di pensiero allotro, i quali ritenendo di aver compreso il tuo, tentano d’implementarlo a loro favore, riuscendo quasi sempre a  produrre (a proposito di metabolismo) copiose e fragranti deiezioni.

Perciò preferisco prendermi una piccola pausa di riflessione, fare quattro chiacchiere invernali intorno al focolare, anzi, vicino al “termosurficuni” come Nzinu, Nzulu e Vicè.

E di questa pausa vorrei approfittare per racccontare una storiella.

Più o meno si tratta di un aneddoto, ma non lo racconterò preciso preciso per come è avvenuto, anzi, per come me l’hanno raccontato.

Un nostro conterraneo di mestiere falegname, emigrato e residente in Francia da diversi anni, che chiameremo, del tutto a caso, Saro, si trova, un giorno, nell’esigenza di disfarsi di una bella, ma vecchia Citroen DS 21, che, dopo averlo servito fedelmente per tanto tempo, comincia a manifestare segni di logorio ed affaticamento, tali da far presagire un prossimo, definitivo e doloroso abbandono.

Nell’ipotesi dell’acquisto di un’auto nuova la propone in permuta a diversi concessionari, ricevendone in cambio dinieghi e commenti vicini allo sberleffo.

Indeciso sul da farsi, mentre guarda i documenti, si accorge che la macchina è assicurata, ancora, contro il furto e l’incendio per un valore, se non consistente, sicuramente, ben più alto del reale valore di mercato della sua nobile berlina “decaduta”.

Appena valutata la circostanza gli si accende una lampadina più o meno alla stessa altezza dell’aureola dei santi Cosimo e Damiano, da lui venerati come numi tutelari.

“Che cos’è il genio?” – fa dire il compianto Monicelli al Melandri/Moschin di “Amici miei” – “È fantasia, intuizione, colpo d'occhio e velocità d'esecuzione.“

E va così, che Saro, dai vialetti ordinati ed alberati, ma troppo frequentati, del sobborgo parigino dove risiede, in meno di un’ora si trova con la sua vecchia “Déesse” (la “Dea”, come la chiamano familiarmente i francesi), in aperta campagna, tra filari di pioppi, campi di cavoli, cicoria, patate e nemmeno una casa a distanza di chilometri.

Si ferma, scende dall'auto, si guarda intorno circospetto, poi prende il vecchio estintore che, secondo la legge francese, è obbligato a tenere in macchina, e lo aziona “a manetta”, lanciando spruzzi di schiuma contro la carrozzeria dell’auto, fino a scaricarlo completamente.

Poi, dopo un’altra guardata a tutto quel panorama in cui l’umanità è presente solo nei segni dell’arte contadina, prende una boccetta di benzina (di quelle usate per ricaricare gli accendisigari), la versa sul tappetino del posto-guida, accosta l’accendino acceso e si ritrae ad una distanza che giudica di sicurezza, mentre le fiamme cominciano ad aggredire il sedile di guida, facendo alzare una piccola colonna di fumo nero.

In quel preciso istante un pacioso campagnard che sta dando una sistemata al tetto di paglia catramata della sua fattoria, si accorge delle volute nerastre che sporcano il cielo limpido di quella fresca giornata di prima estate ed, in mene che non si dica, scende dal tetto, si mette alla guida del suo furgoncino Peugeot, e si dirige verso quella fumata, divorando in men che non si dica la distanza tra la sua casa e la “Déesse” in fiamme.

Con un coraggio da leone che rasenta l’eroismo, supera la sagoma statica di Saro, rimasto con il suo estintore esausto in mano e, giunto ad una distanza di un paio di metri dall'auto in fiamme, dimostra la smisurata potenza del suo estintore francese, estinguendo in pochi secondi l’incendio.

Saro ha guardato la scena impietrito e muto, stringendo al petto il suo estintore esausto.

Adesso vede il campagnard giubilante venire verso di lui, esaltando le doti del suo attrezzo, che alza sulla testa quasi fosse la coppa dei campioni.

Il suo estintore, in quanto francese, oltre ad essere più lungo e più grosso di quello “de l’italien”, a detta del rustico soccorritore, avrebbe anche una gittata più potente ed efficace, tale da sconfiggere subito l’incendio che quello di Saro s’era mostrato impotente ad estinguere!

Lacrime dense ed acide (certamente dovute all’aria fumosa) cominciano a rigare le guance del falegname, e la sua bocca si apre per farfugliare un “merci” che corrisponde, nel suo animo, a tutti gli improperi e le iastime che gli sorgono dalle sue memorie siciliane, mentre assiste all’estro priapo-sciovinistico del campagnard, i cui antenati, in inusitata associazione con la maggior parte dei santi dei calendari italiano, francese e turco, non vengono trattati, nel suo pensiero, con particolare riguardo.

Fu così, dicono le cronache, che Saro se ne tornò a casa guidando la sua Déesse seduto su una cassetta per frutta (ovviamente più grande e più robusta de cettes italiens) gentilmente regalatagli dall’altruista e disinteressato colono transalpino.

S’era rassegnato, ormai, a non incassare un franco dall’assicurazione, dato che l’incendio non era stato “totalmente distruttivo” e dato che, viste le circostanze e dovendosi mettere in conto una possibile disinteressata testimonianza dello “zoticon”, forse era meglio non denunciare l’evento parziale.

Non è dato di sapere che fine abbia fatto la Déesse, né come abbia fatto il campagnard a riconoscere immediatamente, nel suo proprietario, un italiano.

Forse perchè solo a les italiens può succedere di avere l’auto bruciata da un incendio in mezzo alla campagna, di usare in maniera maldestra l’estintore e di mantenere, a distanza di sicurezza, un atteggiamento puramente contemplativo, in attesa di un epilogo giudicato ineluttabile, quando, forse, ineluttabile non è?

Quanto alle intenzioni, forse il campagnards nemmeno se le immagina e, sicuramente, men che meno gliene fotte di immaginarsele, fiero com’è del suo gesto altruista.

A conclusione della storiella, parabolica anzichenò, ecco che i miei sette o, forse, otto lettori, dei quali conosco nomi, cognomi e “a cu appartiennu” (ivi compresi i due o tre che non si manifestano), si getteranno a corpo morto nell’interpretazione, nella smorfia, nella ricerca della morale, della rivelazione!

E cominceranno a chiedersi: “Perché - ad esempio - il piromane dilettante si chiama “Saro”?

E lì tutti (beninteso, sempre sette o otto) a fare sorrisini, ammiccamenti, a proiettare similitudini con personaggi alla ribalta, ecc.

Ma no, non è questa l’intenzione, ci mancherebbe altro!

Ho voluto chiamare Saro il protagonista solo perché è un nome siciliano qualunque di un siciliano qualunque.

Avrei potuto chiamarlo Anciliddo, oppure Peppino, oppure Tanino, oppure Ciccio, oppure Vicè, oppure Totò.

Sempre nome qualunque di siciliano qualunque restava!

Così come un siciliano qualunque è il protagonista di questa storia, che crede di essere furbo e di saper fregare il prossimo e, quindi, suscita la nostra ammirazione di siciliani qualunque dai nomi qualunque, mentre il campagnard, secondo il nostro metro, rientra, preciso preciso, nel ruolo del connard.

In fondo la storiella altro non è che un grosso ossimoro, dove ogni significato attrae ed assorbe il suo contrario

Provate a raccontarla ad un francese, tale e quale, senza modificare una virgola e vedrete che, alla fine, a fare la figura del connard non sarà certo il contadino francese.

Ci sono, però, due punti fermi: il primo è che l’idea di bruciare la macchina (al di là della citazione monicelliana) sarà apparsa geniale solo a Saro (anzi, dopo l’esito fallimentare della sua trovata, forse neanche a lui); l’altro è che la “Déesse” è ciò che sembra, cioè la Fondazione Mandralisca.

Triste epilogo? No!

Forse meglio volgerla in positivo e pensare che Saro, un po’ pentito, un po’ indotto dalla necessità di dover trovare un destino alla sua vecchia berlinozza bruciacchiata, si faccia possedere dal demone dell’automobilismo d’epoca e che, una tappezzeria oggi, una cromatura domani, chissà non riesca a riportare la Dea al suo antico splendore.

Anzi che la faccia diventare bella come prima non era mai stata!

In fondo non ci vuole molto: intelligenza, gusto, pazienza, sensibilità e un fondo, anche tenue, di Cultura.

Ingredienti tutti ampiamente coltivati e, quindi, reperibili dalle nostre parti!

O no?

(continua)

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