Considerazioni sul film di Sorrentino “La grande bellezza”

Ritratto di Giuseppe Maggiore

10 Marzo 2014, 17:24 - Giuseppe Maggiore   [suoi interventi e commenti]

Versione stampabileInvia per email

CONSIDERAZIONI SUL FILM DI SORRENTINO “La grande bellezza
(“Nemo mortalium omnibus horis sapit” -  Nessun mortale è saggio a tutte le ore - Plinio)
di  Giuseppe Maggiore

 

La grande bellezza? Dov’è? Di che?

Nel tentare un giudizio soggettivo atteniamoci, di grazia, all’aspetto “letterale” della pellicola e, di buon grado, tralasciamone il “fraseologico”, sul quale ci si potrebbe sbizzarrire scrivendo tomi.

Qua si parla di un’opera molto fortunata (premi: “Oscar 2014”, ”Golden Globe”, “Bafta” “Quattro European film Awards”); e, di conseguenza, mi chiedo: nel film, dov’è questa grande bellezza? Cosa vorrebbe adombrare tale mirifico titolo che ha portato il film al conseguimento degli ambiti premi sopra citati?  L’ “Oscar”, soprattutto, tributato dalla prestigiosa Accademy di  Los Angeles?

Il film, da me visionato in toto, sia al cinema che, per un maggiore doveroso approfondimento prima di esprimere un qualsiasi pensiero, in TV, violentando la mia bramosìa di alzarmi e di andarmene o di cambiare canale (ma ero già stanco per farlo), mi sembra una scopiazzatura malriuscita di capolavori del calibro di “La dolce Vita”,  di “Otto e mezzo”,  di “Roma”, di Fellini o di “La terrazza”, di Scola.  Credo, pertanto, che si possa, a buon diritto, parlare di agnizione, in questo caso, per definirne lo stile.

Secondo le presumibili intenzioni di Sorrentino (43 anni), che si trova indiscutibilmente in simbiosi con l’attore Toni Servillo, (fra gli altri interpreti: Carlo Verdone e Sabrina Ferilli), il film, condotto dal personaggio Jep Giambardella (Toni Servillo; e poi perché questa americanizzazione del nome quando siamo Italiani e ci troviamo in Italia?), giornalista di 65 anni, mezzo scrittore, mezzo viveur, mezzo filosofo e, secondo la sceneggiatura, uomo di fama pieno di fascino, intorno al quale una miriade di personaggi inusitati, quantomeno strani, ieratici, singoli o a gruppi, di diversa estrazione sociale si muovono come in una variopinta girandola demoniaca, dovrebbe  rappresentare i vari aspetti di una città bella e complessa come Roma impregnata di cultura, arte e mondanità, invasa da turisti in coda per ammirarne i monumenti storici immersi in una antichità decadente.

Vorrebbe, in sostanza, il film (sempre secondo le presumibili intenzioni del regista), proporre l’esaltazione della bellezza italica nel fulgore del suo più intimo fascino; ma, a leggere attentamente fra le righe delle sue multiformi inquadrature, potrebbe anche voler enunciare una malinconica condanna dell’Italia di oggi omaggiando la Roma che fu.

Ciò, ripeto, sempre cercando di intuire cosa si fosse proposto il regista, perché la visione della pellicola mi lascia alquanto disorientato.

Ma, in realtà, cosa mostra il film finito, forse “girato” e prodotto con l’ambiziosa presunzione che potesse favorire il recupero di una certa credibilità internazionale del nostro paese?

Mostra, a parer mio, un’accozzaglia di immagini caotiche, montate alla rinfusa senza un apparente legame che le unisca l’una all’altra; immagini imprecostituite, supportate da una musica, in parte ritmata, che a volte, tuttavia, diventa assordante; ottimi, invece, i “larghi” pentagrammatici  della partitura di accompagnamento.

Una itinerante fiera circense, insomma, fantasmagorica, rutilante, si, ma senza costrutto.

Il tutto lasciato al caso, con i dialoghi spesso non percepibili, perché sussurrati.

E poi, quali dialoghi? Qualche massima certamente attendibile o un monologo introspettivo; ma  per lo più, cianfrusaglie verbali.

“Bla, bla bla”, è il commento finale del personaggio chiave; quasi a riconoscere, lui stesso, involontariamente,  l’inattendibilità di una impalcatura senza senso.

Buona, comunque, la recitazione di Servillo, col suo tono soft, noncurante, quasi confidenziale, intimo, se vogliamo.

Ma poi: la romanità di una Ferilli non più pimpante come prima, la corposità di Verdone (il suo ruolo migliore è quello che esplica nei suoi lavori, tagliati apposta sulla misura del suo personaggio, che, impiegato altrove non risulta granchè), tutto ciò induce ad una sensazione di stanchezza favorita dalla prolissità dell’opera.

Il fatto si è che quando un regista non ha niente da dire e vuole, per professione o per ambizione, a qualunque costo fare un film, lo riempie  di inquadrature disomogenee, di sequenze inarticolate, di personaggi dal profilo discutibile, con un’assenza totale di filo logico nella sinopsi, confidando soltanto su una buona fotografia, su scenari d’un certo effetto e, soprattutto, su un calligrafismo portato all’esasperazione (movimenti di macchina, gru, dolly, carrello, angolazioni studiate, pianisequenza e quant’altro).

Ma tutto ciò non può salvare un’opera che non ha un’ossatura ben definita ed una storia ben determinata, come s’è espresso.

E’ come se un pittore disegnasse al centro della tela un qualcosa di evidente, di riconoscibile, e poi riempisse tutto il restante spazio circostante con macchie di vario colore inopportune e senza significato.

I Teorici dell’arte cinematografica, i grandi teorici del passato, soprattutto (Pudovkin, Eisenstein, Canudo, Balazs e quant’altri), assumono che un’inquadratura deve contenere in sé i germi che presuppongono la successiva; e questa, al contrario, deve affondare le sue radici in quella precedente. E il tutto armonico deve necessariamente confluire nell’intera sequenza, sempre in asse con il soggetto, per favorire, infine,  la fluidità del discorso filmico.

Ma non così il film di Sorrentino, che appare un’opera confusionaria, come s’è accennato, slegata, discontinua, dove personaggi eterogenei privi di costrutto o motivazioni compaiono e scompaiono inspiegabilmente senza che visibilmente siano legati ad una storia, storia che non c’è ed in cui montaggio ed azioni scimmiottano quelli di film che, grandi glorie del passato, mantengono ancor’oggi il loro alto livello, lasciando molto confuso lo spettatore.

Un film, quindi, tappezzato d’immagini incongrue, come quelle di un puzzle da comporre.

Mi chiedo come mai una simile improbabile sceneggiatura abbia potuto trovare una produzione condiscendente.

Alla luce dei risultati, purtroppo, questo film potrebbe sembrare l’elucubrazione patologica di uno spirito in crisi di astinenza sessuale.

Eppure Sorrentino, giovane intelligente e tecnicamente preparato (uno che non lo fosse non avrebbe potuto avere l’excursus professionale che ha avuto lui), ha realizzato altri film, alcuni di pregio: “L’uomo in più”  (film d’esordio nel 2001) e poi: “Le conseguenze dell’amore” (2004- David di Donatello per miglior film, regia e sceneggiatura) e  “L’amico di famiglia” (2006) e poi ancora “Il divo” su Giulio Andreotti (2008 – premio della giuria a Cannes) e “This must be the place” (2011).

Sfortunatamente il salto di qualità, col film attuale, a parer mio non gli è riuscito.

Ma, il fatto che il lavoro sia stato coronato dall’ “Oscar”?

Bè, i casi sono molteplici. Intanto ci sarebbe da sapere se a Los Angeles il film sia stato proiettato con i dialoghi in italiano o in inglese: nel primo caso, per quanto la Commissione giudicante abbia potuto avere una buona conoscenza della nostra lingua, tuttavia c’è da osservare che se parte delle battute noi che siamo Italiani non le abbiamo recepite bene, immaginiamoci come le abbiano potute recepire gli Americani; e, in secondo luogo, se il film è stato dato lì in versione inglese, l’inevitabile mancato connubio tra i modi di dire nostrani e quelli dell’idioma straniero non avrà potuto di certo contribuire ad acclarare la valenza dell’opera.

E non sottaciamo, inoltre,  anche l’eventualità che nella decisione dell’Accademy possano avere influito sotterranei motivi di potere e di convenienza, come a volte nei festivals avviene.

Ricordiamo, infine, che il film è costato 9 milioni e 200 mila euro ed è stato coprodotto dalla  Medusa controllata da Mediaset, dalla Banca Popolare di Vicenza, dal Biscottificio di Verona, dal Programma Media, dal Supporto Euromiges, nonché dal Ministero dei Beni Culturali e dalla Lazio film Commission, organismi, che, ovviamente, hanno creduto nella bontà del testo e nella valenza del regista. E, diciamolo pure: sono stati premiati dall’ “Oscar”.

Dal che ne viene, per questo mio personale giudizio sopra espresso, o che le motivazioni che hanno portato al premio siano quelle già da me addotte oppure che i miei limiti non mi abbiano consentito la giusta comprensione dell’opera.

 

Cefalù, Marzo 2014                                                                                                                                                                  Giuseppe  Maggiore