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"Spirito, Materia e Fede" [2]19 Aprile 2015, 09:57 - Giuseppe Maggiore [1] [suoi interventi [3] e commenti [4]] |
"SPIRITO, MATERIA e FEDE"
nelle liriche di Liliana Mamo Ranzino
("Deus quos probat, quos amat indurat" - Seneca -
Dio rende forti attraverso la prova coloro che ama e stima).
Ho parlato di Margherita Neri Novi, recentemente, nel mio intervento "Egloga", pubblicato su questo stesso prestigioso blog; non posso fare a meno, adesso, di disquisire anche su Liliana Mamo Ranzino che si situa in una posizione collaterale alla predetta nel panorama poetico del nostro comprensorio culturale, anche alla luce di quest'ultimo attestato di lode, ennesimo riconoscimento nella pleiade dei consensi ottenuti, conferitole da "International Vesuvia Accademy" nell'ambito della quinta edizione del premio internazionale di Arte e Lettere "Due Sicilie". La manifestazione, realizzata con il patrocinio del Comune di Palermo, si è dispiegata, or non è guari, nella Sala Consiliare del Palazzo delle Aquile della capitale, dove è stato consegnato il premio.
Le analogìe fra le due artiste mi appaiono molteplici, quantunque le motivazioni che le inducono al verseggiare scaturiscano da due stati d'animo differenti, seppure complementari.
Due sensibilità interdipendenti, le loro, due preminenze caratteriali divergenti ma accomunate dal supporto della fede e che, tuttavia, confluiscono in un'unica canalizzazione artistica: quella di un lirismo letterario espresso in vernacolo ed in lingua.
Anche per lei, Liliana, e sempre in forma privata, nel 2011, ho redatto un mio parere a proposito dei suoi due testi "La me cuvata" e "Dalla fede alla poesia" donatimi dalla sua cortesìa in quel di Scillato, là per caso incontratici in occasione della intitolazione di uno slargo a Francesco Paolo Gravina (1800-1854), Principe di Palagonìa e di Lercara Friddi, sul quale storico personaggio nel 1998 io ebbi a realizzare un film che poi, in loco, venne proposto dopo la cennata cerimonia.
Pure della Mamo non avevo mai avuto occasione di leggere niente, quantunque la conoscessi personalmente e per pubblica voce, anche familiare, come rinomata e stimata poetessa plurivincitrice di premi in svariati concorsi internazionali, nonché insignita di non pochi titoli accademici e prestigiosi emblemi onorifici e la cui opera è inclusa in parecchie antologìe.
A dirla tutta, non conoscevo neanche il suo excursus esistenziale e professionale; talché la lettura curiosa ed attenta da me fatta delle liriche contenute nelle pubblicazioni sopra riportate è stata per me una gradevole scoperta rivelatrice ed una innegabile conferma di quanto su di lei avevo sentito svariate volte affermare.
Successivamente ho avuto modo di leggere altri toccanti testi della Medesima; scritti che inneggiano ad una cocente rassegnazione cristiana e tutti scaturiti dal ricordo giammai obsoleto dell'amato figlio Vincenzo, scomparso in giovane età per un banale incidente stradale: "Briciole di vita", Raggi di luce", "Eterna contemplazione", "Dalla fede alla poesìa", "Dolci melodìe del cuore", "Albe e tramonti splendenti", oltre a quei due sopra menzionati nell'incipit e ad altri di cui ho conoscenza solo per sentito dire.
Ma la rinomanza della Suddetta non finisce qui. Alcuni suoi componimenti, come sopra espresso, sono stati pubblicati in antologìe di tutto rispetto, quali: "Sentimenti in concerto" (a cura di Rita Elia con prefazione di Tommaso Romano), "La poesìa è più viva che mai" (edita dall'Ass.ne Teatro-Cultura "Beniamino Joppolo" di Patti), "Poeti Italiani Scelti di livello Europeo" e "Sulle orme di Aristotele" (con prefazione di Gianni Ianuale); o licenziati in comunione con altri artisti.
A parte la meritata inclusione, soprattutto, nel citato compendio "Poeti Italiani Scelti di livello europeo" del nominativo dell'autrice fra gli altri, operazione antologica che presuppone una analisi accurata e di livello nel coacervo europeo che pertiene alla poesìa intesa nella sua massima espressione artistica, ho avuto il piacere di rilevare dalla interessante e forbita disamina del mentore Enzo Concardi una ulteriore conferma a quanto da me interpretato e comunicato direttamente per lettera all'autrice stessa: la sua estrema sensibilità corroborata dal costruttivo soffio dell'arte.
L'animo della quale, gentile, sensibile e proteso nell'amore verso il Divino (quel Dio che "... atterra e suscita / che affanna e che consola"), fonte inesauribile e matrice del sentimento affettivo stesso, il suo sentirsi "foglia" staccata dall'albero e preda del turbinìo del vento agognante l'arrivo a terra per poter alfine riposare (metafora, quest'ultima di intenso impatto emotivo), il suo sconforto-conforto nel rimembrare il sofferto trascorso intimo dolore seppure mitigato dalla virtuale reciproca materna "corrispondenza d'amorosi sensi" con la sua "A me cuvata" e con la sua famiglia intera, tutto ciò depone a favore di una maturità artistica, generata e rigenerata dall'ambascia, dall'angoscia e certamente anche da qualche momento di estrema disperazione, faticosamente superato; stati d'animo, tuttavia, che non hanno fiaccato il senso del dovere della donna, della madre e della poetessa, ma che, anzi, hanno determinato una catarsi nell'animo di lei nel quale il coraggio rappresenta l'indiscusso elemento catalizzatore che ne plasma e ne regola la vitalità esistenziale.
Molto più che al Ritsos, come chiosa il Concardi, in virtù delle liriche analizzate io accomunerei Liliana al Carducci di "Pianto antico": anche lui trova la sua risorsa vitale, il proprio riscatto salvifico, nella rimembranza di un vissuto angosciante che determina la sua resurrezione attraverso l'arte.
Che la poesìa, quale mezzo espressivo di rivelazione e di sfogo, sia congeniale a Liliana è un fatto evidente, comprovato e risaputo; basta leggerne una con la dovuta partecipe attenzione per accorgersi di trovarsi dinanzi ad una autrice, schietta e sincera, la cui indubbia personalità artistica e morale tracima la sua natura introspettiva esteriorizzandosi, indomita.
L'impatto col suo mondo spirituale, colmo di prorompente religiosità, mi ha indotto ad un immediato convincimento sull'essenza dell'opera prodotta; pensiero che qui mi viene da sintetizzare così: apoteosi della sofferenza come mezzo precipuo per superare il pleroma e raggiungere la parusia: dove pleroma sta per estrema fragilità della materia rapportata all'assoluta realtà del principio ideale e divino e parusia vuole indicare lo stato di grazia definitivo a cui ogni fedele agogna.
In buona sostanza, la linfa della Mamo, che credo potersi rapportare all'involuto concetto di Pierre Teilhard De Chardin espresso nel suo ascetico "L'ambiente Divino" ("... nemo sibi vivit, aut sibi moritur... Sive vivimus, sive morimur, Christi sumus..." -- nessuno vive o muore solo per sé:.. Ma, sia con la nostra vita, sia con la nostra morte, noi apparteniamo al Cristo), e che, come ritengo, si evinca dai suoi scritti, tende alla maturazione del proprio più riposto sentire per raggiungere la piena realizzazione di sé in un elemento spirituale di serafica completezza.
Questo è il leitmotiv che governa il verso della nostra artista: donna originariamente fragile che l'esperienza, con le sue tristi ed ineluttabili vicissitudini che hanno condizionato il suo sofferto cammino, ha segnato, plasmato e temprato facendola rinascere a novella rigogliosa vita attraverso, ripetiamo, il concetto carismatico della fede e dell'arte.
Bisogna, dopo le superiori considerazioni, concepire due momenti fondamentali nel percorso stilistico di quest'anima: un primo momento anteriore alla tragedia che la colse impreparata e la provò; ed un secondo, sicuramente formativo e più fattivo e, se vogliamo, anche reattivo, quello della rigenerazione dopo il triste e tristo accadimento.
La prima fase, quella della verde stagione dei ridenti dorati sogni pregni di spensieratezza, delle fantasiose giovanili speranze, frutto di ingenui e freschi pensieri, si è, purtroppo, conclusa troppo presto per la "madre", causandole una indicibile depressione.
"... All'apparir del vero, tu, misera, cadesti..." dice Leopardi a Silvia.
Ma non è stato, fortunatamente, così per la nostra autrice; ché, anzi, il sofferto trauma occorsole ha rappresentato la molla salvifica che l'ha spinta maggiormente a guardare dentro se stessa, animata dalla volontà tenace di risalire la china e di vivere la sofferenza con rinnovata coscienza; in ciò sorretta da una nuova imprevista energia sorta sulle ceneri del suo dolore e germogliata fra i rovi di un cocente pathos (irredimibile all'impatto) irrorato dal fortilizio delle rimembranze più care, dalla comprensione e dall'amore costante di Giammaria, suo marito, e dall'anestetico del suo profondo credo.
Infatti la poetessa non spende il suo sentimento nell'autocommiserazione, né nella disperazione; né la sua radicata fede risulta intaccata o viene meno, istigata da un naturale senso di rivolta contro il "caso" o chi lo determina. Ma, infaticabile, ella ripercorre ed adombra in ogni sua lirica le profonde rughe del suo sconfinato dolore vissuto con cristiana rassegnazione e che ha determinato, come s'è detto, il crescere spirituale del suo animo d'artista; dolore, quindi, che è stato fautore di una catarsi irreversibile dalla quale il sentimento esce sublimato e mutato in profonda gioia con l'accettazione della vessante indicibile pena.
Quello di Liliana è, quindi, un lirico afflato che, semplice e puro, sgorga dal suo trafitto animo e s'innalza, sostenuto da una fede profonda, in un iperuranio agognato, panacea di ogni più riposta aspirazione di adesione al supremo volere divino al quale tutte le umane cose convergono.
Così, in sintesi, mi appare il nobile animo di Liliana Mamo Ranzino che emerge, determinato e puro, dalla estrema incisività delle sue sofferte liriche.
La sua non è una poesìa addottrinata, infarcita di classici riferimenti, di similitudini, di dotte citazioni o di quant'altro del genere; non è un volersi appoggiare sulla spalla altrui in cerca di un qualsivoglia esterno conforto sciorinando il proprio privato sentire; è l'espressione più leale di una coscienza che non si piange addosso e reagisce con coraggio all'avversità.
Tutti sappiamo che l'arte è la sublimazione di ogni passione umana (e ne ho già trattato in lungo ed in largo altrove). Attraverso di essa la monade si rivela a se stessa prima che agli altri. L'arte è un dialogo intimo che si instaura con la propria anima alla ricerca tenace di un esaustivo modo di esprimersi per avvalorare una riflessione sul proprio "io" forgiata dalla quotidiana personale esperienza.
Il verso di Liliana Mamo Ranzino, semplice, sincero, estemporaneo, mai calcolato o costruito, sempre fresco e genuino, scaturito dal cuore, palese espressione di una natura riflessiva e schiva, come accennato, rifiuta l'orpello di una curata costruzione letteraria, azzimata e limata: e, appunto per questo, si dimostra più espressivo e coinvolgente.
San Paolo diceva: "...qualunque cosa facciate, fatela in nome di nostro Signore Gesù Cristo..."; e sicuramente a questo intendimento si ispira la nostra autrice che fà arte pure senza alcuna velleità di farla.
La percezione del Divino è in Liliana la forza trainante che la condiziona e dirige rendendola viva e vitale; e la sua grande volontà di resurrezione spirituale dalle infinite latebre dell'ambascia trae, appunto, origine e sostanza da questa rivisitata consapevolezza interiore.
Vedasi, nella poesìa "Cieli", l'ultimo capoverso, quando paragona il suo cuore ad un "vicolo cieco" nel quale entra uno "spiraglio di luce" soltanto quando prega. E poi in quell'altra "2 Novembre 1994" dove conclude con la preghiera rivolta all'Altissimo di darle la forza di mai disperare. E, ancora, in "Anelito", dove candidamente dichiara: "...vivo il mio tormento stringendo il Rosario fra le mani...". E le sue confidenze genuine, immancabilmente estemporanee: "... Vincenzo, ti vedo nel fiore che sboccia profumato al mattino..." o "... Io sono una donna sola innamorata dell'amore..." o, ancora "... E così fu che quell'improvviso colpo di fulmine diede inizio alla mia tempestosa vita..." o "...Carico di memorie è il vento d'autunno..." o "... I colori dei miei versi somigliano a quelli dell'arcobaleno che annuncia il sereno dopo una furiosa tempesta...". Tanto per citare alcuni passi.
In "Anelito" si palesa evidente il suo alto senso morale che è quello di lenire la propria pena pregando; e così facendo si eleva in una dimensione asettica dove il suo dolore diventa fomite di gioia, di veridiche certezze in una virtuale sperata realtà avvenire nella quale possa ricongiungersi con l'amato figlio perduto.
Ma la versatilità dell'artista si prodiga anche in aliene considerazioni sociali; come in "Vorrei", dove auspica una pace internazionale abolendo le barriere degli Stati e creando un'unica società.
Liliana fà suo il concetto che tutti siamo, in sostanza, figli della terra e, pertanto, unico popolo; dimensione intellettuale, questa, tanto tenuta in alta considerazione dal polizzano Borgese nei suoi scritti licenziati alle stampe ai primi albori del secolo scorso. Né dimentica, l'autrice, le riflessioni descrittive sulla natura, sul fluire del tempo e su quant'altro.
In generale, quando si legge una qualunque lirica di un qualsiasi autore ci si trova a contatto diretto con il personalissimo sentire di chi l'ha scritta e, attraverso il lessico di essa, scorgiamo i contorni di un'anima.
Ancora: se vogliamo definire ulteriormente l'opera d'arte diremo che essa è lo sfogo supremo attraverso cui è possibile per l'autore, oltre che il palesarsi, esternare il coacervo delle proprie più riposte cocenti emozioni, liberandosene o attenuandole.
E' un diario, l'opera d'arte, insomma, se si vuole, che rappresenta l'alter ego a cui confidare i propri sentimenti. Ma la poesìa travalica il senso e la limitatezza del diario e diventa una esternazione pubblica più ampia e sincera della propria intimità.
Credo che Liliana Mamo Ranzino abbia, nel suo sofferto vissuto cammino, trovato il senso del proprio riscatto di "Mater dolorosa" liricizzando le proprie sensazioni.
L'ultima parola del testo "Dalla fede alla poesìa", "... ricominciare...", è sicuramente la sintesi più immediata, la "summa" delle pulsioni dell'autrice; soprattutto quando esprime la convinzione che il tempo passato nell'angoscia non è tempo perduto, bensì è il lievito che dà tanta carica e, conclude: "... tanta forza per continuare a vivere / quella vita che tanto amo / e mi dà la certezza dell'eternità..."
Giuseppe Maggiore