4 Novembre 2014, 14:26 - Giuseppe Maggiore [suoi interventi e commenti] |
L’ I N T E R V I S T A
(remake)
Solo per gli Eletti!
L’amico Remigio (non da Varagine), per grazia del Cielo e bontà delle sue scelte Direttore di un prestigioso periodico conterraneo, del quale opportunamente taccio la testata per ovvi motivi antipubblicitari e sul quale foglio (annoto per inciso) ha già visto la luce qualche mia più riuscita composizione letteraria (o pseudo tale), m’ha investito (il termine è puramente metaforico!), or non è guari, del mandato (da me malvolentieri accettato!) di intervistare l’esimio Cav. Prof. Dott. ********, di questo vallo, eminente personaggio di chiara fama conosciuto anche all’estero, sapiente in entrambi i diritti, luce e faro dell’umana dottrina, in più scienze versato, ricercatore insigne ed instancabile deduttore di intricati enigmi, felice seguace della logica aristotelica, teologo pio e di belle maniere (e chi ne ha più ne metta!) e che il Cielo conservi, come ebbi a scrivere forse più impropriamente altrove, per la magnificazione delle generazioni future.
Chi non conosce, se non altro di nome, l’illustrissimo personaggio testé citato?
Incarico da me malvolentieri accettato, come asserivo, per una congerie eterogenea di plausibili motivi (plausibili per me!) dei quali i più importanti assommano a due:
1°) che io non sono né un cronista né tantomeno un intervistatore, ma soltanto un illuso che ama scrivere novelle e similare robucola di modestissimo livello per semplice diletto e nient’altro; perché, se lo facessi spinto dalla recondita speranza di veruno guadagno già il collo mi sarebbe diventato lungo per l’attesa, se non fossi, addirittura, trapassato per fame;
2°) che non m’è mai piaciuto andare a chiedere a chicchessia il suo personale riservato pensiero su una data cosa o su un’altra; come, ad exemplum, se parteggi per la Sinistra o si senta attratto dalla Destra, se sia tifoso o meno e per quale squadra, se sia credente o agnostico e così via all’infinito. Che ognuno si faccia i cazzi (mi si passi il termine) propri, che diamine! Io non ci voglio mettere il naso nell’altrui privacy; e se qualcuno, poi, vuole ammannirmi qualche notizia riservata, io preferisco non saperla. E ciò, sia per una naturale mia ritrosìa che per innata discrezione! Per non citare anche l'etica personale! Scegliete la motivazione che più vi aggrada.
D’altro canto, amici carissimi e preclari miei estimatori (ove ve ne siano), si abbia per fermo che io sono la quintessenza della più pura timidezza. Fatemi grazia di ciò. E, togliendo i convenevoli di rito, che allignano sempre negli usuali incontri, in qualsivoglia approccio mi riesce oltremodo ostico, per non dire estremamente difficile, rompere il ghiaccio ed intavolare una qualsiasi conversazione capziosa che tenda a far parlare l’altro restando zitto io; e tutto ciò, soprattutto, quando si tratta di contattare una eminente personalità come quella, nel caso in esame, dell’esimio e illustrissimo Prof. Dott. ecc. ecc. *********, universalmente conosciuto ed apprezzato, ripeto, sia nella nostra regione che fuori.
Tuttavia, come dare una negativa al buon Remigio, che, affidando a me l’incarico, certamente ha inteso esternarmi la sua incondizionata stima e la sua più schietta fiducia in un qualche mio talento, peraltro ignoto a me stesso?
Rifiutando, di certo avrei deluso le sue aspettative, da un lato; dall’altro, mi sarei irreversibilmente data la zappa sui piedi, come si dice, per l’avvenire. Infatti egli, ricredendosi sulla mia valentia e sulla mia tanto declamata disponibilità, non mi avrebbe più onorato più con altri incarichi di fiducia.
E, allora, che faccio?
Decido di lanciarmi nell’impresa, pienamente convinto di non essere, purtroppo, assistito da alcun paracadute salvifico e di non avere frecce nel mio arco.
Così, in un bel pomeriggio di questo nostro autunno che par che venga e mai arriva, intorno all’ora sesta (per dirla coi Romani) drizzo l’irrequieto piede verso la fastosa dimora dell’intervistando, dopo essermi fatto precedere da un’opportuna telefonata del Direttore del giornale per fissare un appuntamento.
La strada. Il portone. Il citofono.
Pigio il bottoncino relativo al nome che m’interessa ed aspetto, preda di un indefinibile disagio emotivo.
“ Si?...” Una voce di donna, credo, laida e arrochita, di carontiano stampo, geme all’altro capo del filo e mi colpisce di soprassalto. Penso di aver sbagliato destinazione; forse ho bussato all’inferno, mi dico. Comunque m’informo educatamente.
“Casa del Prof. *********?”
“Certo, dal momento che ha citofonato qui!” La spiegazione è laconica e non ammette repliche.
“..Ah.. già.. scusi.. sono..” e pronunzio il mio nome “..Vengo da parte di …” e nomino il Giornale.
“Salga! Terzo piano!” conclude la voce, o, per meglio dire, il ruggito.
Il cicalino si spegne sullo scatto metallico della serratura del portone che viene simultaneamente aperto.
M’inoltro nell’ambiente semibuio di un atrio antico e affronto una maestosa scala di marmo pario che mi si para davanti emergendo dalle tenebre al mio incedere.
Sessanta scalini, né uno di più né uno di meno. Li ho contati? Certo che li ho contati! Per tenere occupata la mente e tentare di distoglierla dalla persistente emozione. Raggiungo un ampio pianerottolo, al terzo piano, su cui si aprono tre porte. Ne leggo le targhette e pigio il bottone del campanello di quella giusta.
Un ciabattare sommesso, un arresto, uno secondo scatto metallico. La porta viene aperta.
“Entri. S’accomodi.” Il sembiante della vecchia megera che mi riceve e mi precede nell’interno s’accorda perfettamente col suono della sua tenebrosa voce. E’ proprio la donna che mi ha risposto al citofono; non ho dubbi.
Vengo immesso in un salotto vecchio stile, appena rischiarato dalla parvenza di luce che riesce a filtrare dall’ingresso; infatti le imposte sono ermeticamente chiuse, quasi che i mobili temessero di rivelarsi apertamente.
“Venga, venga. Qui teniamo chiuso per evitare che entrino le mosche” la spiegazione non si fà attendere “Sa, appena vedono la luce si precipitano. S’appiccicano a tutto e tutto sporcano. Una cosa da non dire! E in questa stagione ce ne sono a frotte. Lei è di qui?”
“… Si, sono di qui…”
“Bene, bene. Allora lo sa meglio di me. La vera causa del loro proliferare è la pulizia del paese che lascia a desiderare. Si sieda, si sieda. Il Professore verrà a momenti.”
Intanto ha terminato di spalancare gli oscuri e, magra e rinsecchita come la vedo adesso (può avere benissimo settantacinque anni e forse più) scompare affondando fra i soffici cuscini della poltrona dirimpettaia a quella, identica, dove mi sono seduto io.
“Mi dica di lei. E’ così giovane!” m’intrattiene la vecchia.
“… Veramente.. non proprio…” mi schermisco io “..Sto arrivando ai sessant’anni..”
“E bè?” si scandalizza la mia grifagna interlocutrice “Le sembra molto? Sono ancora giovane io, pensi lei! Non li dimostra, comunque. Fà il giornalista?”
“… Non d’abitudine…”
“E che mestiere fà, allora?”
“... Molte cose e niente… Mi godo la pensione…”
“Fà bene. Coi tempi che corrono, mi creda, è già un traguardo ragguardevole, questo! Io, da giovanissima, non mi son mai voluta impiegare. Ho preferito lavorare in casa. La pensione non c’è, almeno sino ad oggi, per le casalinghe. Chissà, forse un giorno…… Però non mi lamento. In più, non mi son voluta mai sposare, sempre in attesa dell’uomo giusto. Eppure… se sapesse quanti mi avrebbero voluta! Pensi, anche adesso c’è qualcuno che mi richiede a mio fratello.”
“… E’ la sorella del Professore, lei?..” azzardo timidamente, tanto per dire qualcosa.
“Perché, non si vede? Siamo due gocce d’acqua, io e lui”
“… Veramente non ho il piacere di conoscerlo, se non di fama…”
“Fra breve colmerà questa sua lacuna. Io reggo la casa, qui, dal momento che neanche lui è sposato. E se non ci fossi io a interessarmene, mi creda, tutto andrebbe a catafascio. Questo è poco ma sicuro. Cosa gradisce? Un caffè? Un liquorino? Dei biscotti? Eh?”
“Le sono molto grato… Ma non vorrei prendere niente.. sa.. lo stomaco…”
“Sciocchezze! Un bicchierino non può farle male. Questo liquore è fatto in casa da me stessa, con la scorza dei limoni. Sentirà!” E senza ammettere ulteriori mie reticenze, si solleva dai cuscini con insospettata agilità e si avvicina ad una credenza vetrata dove varie teorie di bicchieri di cristallo disposti in bell’ordine fan bella mostra di sé. Armeggia con l’anta che infine si apre e prepara il beveraggio travasandolo da una bottiglia di colore nero. In quella, un suono melodioso di pianoforte si fà sentire dietro qualche porta chiusa.
“E’ il Professore che suona?…” m’informo con deferenza “E’ veramente bravo. E che bella melodia!..”
“Ma no, non è lui. Lui non sa suonare, è stonato come una campana fessa; è mia nipote, la figlia di mio fratello Attanasio, che vive con noi. Il padre, ma lei questo non credo lo sappia, ha perso la vita molti anni fa cercando la tomba di Ramsete III in Egitto. Ne hanno parlato tutti i giornali. E la madre le è pure venuta a mancare poco dopo, per un banale incidente: è caduta sul braciere e ha preso fuoco. Una famiglia distrutta! Adesso, lei, mia nipote, povera Elena, allieta la nostra dignitosa solitudine vivendo con noi e facendoci compagnia. E se sapesse che figliuola! Di sogno, proprio! Affettuosa, disponibile, servizievole. Di tutto sa fare e bene. Farebbe la fortuna di un marito, se volesse sposarsi; ma fino ad oggi non ha ancora incontrato l’uomo che fà per lei. Pensi: è stata educata dalle suore; e questo dice tutto. A vederla, mi creda, si ha l’impressione di entrare in una chiesa. Ne parli nel suo articolo, presentando la famiglia del Professore” E conclude la sua omelìa in laude della venerata e venerabile nipote, a sentir lei, lanciandomi un laido sorriso che vorrebbe essere di compiacimento, ma che, in realtà, si rivela per una smorfia grottesca che fà risaltare le profonde rughe del suo scarno impressionante viso e la sua sdentata chiostra dentaria.
Intanto, di là, il suono s’attenua, s’interrompe, riprende. E’ il “Chiaro di Luna” di Beethoven che viene proposto. Evidentemente l’esecutrice, la nipote del Professore e di “Caronte” (o di “Caronte” al quadrato, se è vero che i due fratelli si assomigliano come due gocce d’acqua, come sostiene la vecchia), ha un carattere romantico. Sicuramente, tarpata dalla natura nel sembiante e nelle forme (soprattutto se assomiglia agli zii, penso), Elena sfoga la sua opprimente malinconia immergendosi e librandosi nella toccante limpidezza delle note di Beethoven, appunto per lenire la propria inconsolabile tristezza; con indubbio temperamento d’artista, però.
Si sa che chi per alcuni versi è beffato dalla natura nella sua dimensione esteriore o interiore, se ha un carattere sensibile trova nell’arte e nella contemplazione del bello il proprio motivo di riscatto, rimuovendo il reale e rifugiandosi nella fantasìa, che è l’unico specifico deputato a colorire l’esistenza.
Ma non ho il tempo di sviluppare questi profondi concetti perché la vecchia, vedendomi pensieroso, mi trae di scatto dalle mie fantasticherie.
“La vedo astratto. Per non dire assente” prorompe “Non sarà, certo, il liquore che ancora non ha bevuto. O è la musica, forse, che l’attrae?”
“… Si.. infatti…” ammetto “…è proprio la musica… è molto bella.. coinvolgente.. si sa.. Beethoven… ed è suonata molto bene…”
“Elena è bravissima, infatti” concorda la vecchia “Ha fatto tutti e dieci i corsi, presso le Passioniste tanto per intenderci. E questo spiega tutto. E se non fosse mia nipote potrei dire che suona da professionista; e in effetti lo è. Ma, venga. Gliela faccio conoscere”
“… Veramente non vorrei disturbarla…” tento di obiettare, non volendo ingolfarmi in altre impreviste presentazioni. Qui sono venuto con uno scopo preciso, con un mandato ben chiaro, e a quello debbo tendere.
“No, no. Le farà, anzi, piacere. Venga!” La vecchia non mi lascia scampo; il ghigno satanico che le increspa la bocca tiene luogo di un accattivante sorriso di compiacimento.
Mi sono fregato! E, questa volta, senza remissione di peccati. Né posso sfuggire all’imbarazzo di un incontro e di una conoscenza certamente noiosi. Perché, sicuramente, mi toccherà fare dei salamelecchi elogiativi, per pura convenienza naturalmente, ad una donna, che, per quanto valente al pianoforte, tuttavia attese le premesse, mi si rivelerà per quello che effettivamente sarà: brutta, insignificante, zitella e, indubbiamente appiccicosa.
Ritengo sia giustificabile che io non apprezzi le donne brutte, per quanto intelligenti e spiritose possano essere. E a chi mai possono piacere? In più, io son qui venuto, lo ribadisco a me stesso, per fare l’intervista allo zio e non per sdilinquirmi in ipocrite cortesie alla famiglia; ed essendo così proceduti gli eventi, adesso dovrò pur sobbarcarmi a far la corte alla nipote. La corte, per modo di dire, eh! Sarà un’ulteriore perdita di tempo, oltre quello che sto già perdendo aspettando che il Professore si degni di apparire. Un imprevisto, questa nipote, insomma, che, sicuramente, non gioverà alla chiarezza delle mie domande preparate con doviziosa cura e delle quali, mi pare, sto irrimediabilmente perdendo il filo.
Ma come faccio, adesso, a rifiutare, quando con i miei futili apprezzamenti mi sono inconsciamente cacciato dentro questa nuova e impensabile scocciatura?
Non mi resta che seguire la vecchia, che, dal canto suo, con imperioso intransigente invito, mi fulmina con un: “Porti con sé il bicchiere!”
Eseguo e ci trasferiamo in un salone attiguo, ampio e pregevolmente ammobiliato, sul fondo del quale un pianoforte a mezza coda fà bella mostra di sé e dietro cui si produce una figura femminile.
Ancora non scorgo la pianista nella sua interezza, perché è impallata dal coperchio dello strumento sollevato e trattenuto da una stanghetta. Comunque, sempre al seguito di “Caronte” in gonnella, col bicchiere in mano, carrello in avanti e mi fermo al piano americano della nipote del Professore. E, naturalmente, ne percorro la figura con un’occhiata panoramica, a prima vista del tutto indifferente.
E lì, credetemi, resto di stucco, folgorato dalla visione, stupito dall’impatto, esterrefatto dalla sorpresa, irretito dalla sensazione, scosso nelle mie più intime precedenti convinzioni, dinanzi a quella splendida figura che splendidamente suona il piano. E che il Cielo mi fulmini se non paleso il vero!
Intanto debbo premettere che costei non l’ho mai vista in giro; e ciò mi meraviglia alquanto perché (è un mio vezzo!) le donne di una qualche prestanza credo di conoscerle tutte in questo millenario centro. E, pertanto, rimango abbagliato dinanzi a tanto miracolo: ve lo giuro! Non somiglia per niente alla zia, come avevo temuto. Anzi, ne è all’opposto!
E’ bionda (che ci volete fare, io apprezzo di più le bionde! Unicuique suum!), alta quanto me, con i capelli lisci che le piovono sulle ben tornite spalle; ha gli occhi celesti, è giovane sui vent’anni, soda, armoniosa nelle forme e nel sorriso. In netto contrasto con l’ambiente stagionato che le fà da scenografia. Indossa un’aderentissima minigonna grigia, elasticizzata, che digrada, poi, in calze a rete, nere, e scarpe lucide con tacchi a spillo; ostenta, inoltre, un minuscolo corpetto a maglia fina, superscollato, mozzafiato, che quasi niente cela dei suoi magnifici globi pettorali. Che sia benedetta madre natura che l’ha fatta così! Mi giocherei una fortuna (che purtroppo non ho!), ma credo di non sbagliare ipotizzando che porta anche il reggicalze: ciò lo desumo dai quattro lievi rigonfiamenti simmetrici della gonna sulle cosce, quasi all’altezza del bacino. Amen! Più che di chiesa, questa mi sa tanto di luogo di perdizione e di peccato! La zia ne ha soltanto frainteso l’ubicazione.
Che posso desiderare di più?!
“Elena, ti presento il signor...” e mi nomina “che è venuto ad intervistare lo zio”. La vecchia si mostra compiaciuta, mentre con l’occhio acquoso ammicca al mio sincero stupore ammirativo.
Elena interrompe l’esecuzione nel bel mezzo di una doppia biscroma e si volta verso di me squadrandomi con curiosità; poi le sue rosse e piene labbra, che nella confusione del momento ho imperdonabilmente omesso di descrivere, si schiudono in un coinvolgente malizioso sorriso ed ella mi porge una manina fine e delicata, con le unghie laccate di un rosso vivo, il cui imprevedibile contatto mi fà fremere elargendomi la fantasiosa visione di paradisi perduti e di soglie mai varcate.
Rimango muto, come dinanzi ad una delle sette meraviglie del mondo (che, poi, per la verità, credetemi, non ho mai saputo quali siano) e con enorme difficoltà riesco a spiccicare i convenevoli di rito, rischiando di versare a terra il contenuto del bicchiere che mi trema in mano e dimostrandomi, col mio intontimento, molto al di sotto di quel poco d’intelligenza che credo di avere.
“Le piace la musica?” Elena mi si rivolge, saltando volutamente il fosso dei convenevoli senza ulteriori preamboli. E’ lei a condurre il gioco, non io; se non altro qualche qualità l’ha senz’altro ereditata dalla zia: la decisione e l’intraprendenza. La sua voce è calda e melodiosa; né fà difetto al mirabile resto della sua prorompente fisicità.
“… La musica?... Eccòme no! Mi piace moltissimo. Essenzialmente quella classica.. e la sinfonica, soprattutto, però …” bofonchio io, ricuperando i tre quarti della mia presenza di spirito.
“E quella moderna, no?” insiste ancora lei.
“… La moderna?.. Mah.. non saprei.. Non l’ascolto quasi mai…”
“Fà male. Della macarena che ne dice? “
“… Da Beethoven alla macarena? Bel salto. Certo, in comitiva può anche andare bene…”
Elena si volge verso un mobiletto accostato alla parete su cui troneggia un compact, vi si dirige, fruga fra la raccolta dei suoi dischetti, ne sceglie uno e lo fà inghiottire all’apparecchio; poi torna ad interessarsi di me.
“Ascolti questa. E mi dica che ne pensa”
Ne viene fuori un ritmo, sicuramente afrocubano, dove, tuttavia, l’occidente fà anche capolino. La musica mi porta a vedere luci psichedeliche e baiadere discinte che si contorcono muovendo l’ombellico. Elena, ascoltando, pare essere caduta in trance. Parla con sembiante vagamente sorridente fissando il vuoto dinanzi a sé.
“Vado pazza per questo genere ritmato, a base di strumenti percussivi. Ha qualcosa che scuote dentro, che solletica, forse, il nostro più recondito senso del peccaminoso. Non le pare?” E mi si rivolge, tornando alla realtà, fissandomi con un profondo sguardo ammaliatore.
“.. Non posso che darle ragione…” ammetto, convinto.
Elena ritorna al compact e interrompe il disco.
“Voglio fargliene ascoltare un altro, aspetti…” e si dà alacremente alla ricerca fra la nutrita compagine della sua raccolta. Ma dopo alcuni istanti desiste.
“… Purtroppo non lo trovo…” dichiara contrariata.
La truce zia, che ha seguìto impassibile il nostro dialogo musicale senza interferire, trova spazio per dire la sua, rivolgendomisi.
“Mentre voi parlate, vado ad avvertire il Professore che lei è arrivato.” E senza attendere battuta di riscontro alcuna, esce di campo e si eclissa, trascinando su due stanche legnose gambe la sua prostrata esistenza.
Io non mi infastidisco punto che il Professore sino a questo momento non sia stato minimamente informato del mio arrivo, pur essendo già decorsi ben sessanta minuti dall’orario dell’appuntamento; anzi, la causa che qui mi ha addotto non riveste più per me motivo di alcun interesse. L’unica cosa che mi garba nel presente frangente è una più approfondita conoscenza di questa degna civettuola pulzella che ispira non certo casti sentimenti; e a lei mi rivolgo con tutto l’ardore dei miei non più verdi anni.
“Anche a me piace la musica percussiva, ritmata più lentamente, però” tengo a precisare. “La sento permeata da un alcunché di trasgressivo difficilmente definibile…”
“Quella da night, per intenderci?” Elena mi guarda sorridendo, con una luce maliziosa nello sguardo.
“Proprio quella! Ha qualche pezzo?”
“Aspetti!” E in un battibaleno la fanciulla estrae dalla sua ben fornita teoria di dischetti uno con la copertina rossa. Lo immette nel compact e attende che la musica inizi; quindi comincia lievemente a muoversi in accordo col ritmo del brano musicale.
E’ una musica lasciva, coinvolgente, sensuale. Decisamente peccaminosa.
“Quando ascolto questo brano…..” spiega Elena “… non so che mi succede di preciso. Sento come una sensazione indefinita, primordiale. Un desiderio arcano, inconscio, direi quasi tribale, di spogliarmi, di gridare, di ballare, di vagare nuda per le stanze, in piena libertà di movimenti e di pensieri. Non so perché, ma è così!”
“E perché non lo fà?!” la incito io eccitato, ingollando d’un fiato il resto del liquido acidulo e posando il bicchiere da qualche parte “Metta al bando ogni convenienza, si liberi! In una società piena di vincoli, il rifiutarli, il ritornare alla natura è altamente tonificante!”
“Dice davvero?” si compiace Elena osservandomi con occhi evanescenti.
“Non sono stato mai tanto serio quanto adesso!” confermo deciso.
“Lei mi mette a mio agio” Elena mi viene vicino “Provi questo passo di danza con me, vuole? Guardi…”. E prima di qualsiasi mio possibile assenso, mi pone le mani sulle spalle cominciando a strattonarmi ora un po’ a destra, ora un po’ a sinistra, sempre a tempo di musica. Le sue mani circondano il mio collo e lei si abbandona contro le mie povere ossa che scricchiolano paurosamente, non certo per l’artrosi, bensì perché anche loro sono dilaniate dall’emozione. Il suo profumo provocante (sarà stato “Perdizione d’Oriente”?) m’invade le narici e m’inebria. L’imprevisto contatto col suo corpo caldo e sinuoso m’irretisce e mi annebbia il comprendonio o quel barlume che m’è rimasto di esso. Mi sento tutto scombussolato e mi pare di essere una pentola che bolle. Le flessioni, dall’uno e dall’altro lato, che mi costringe a fare seguendo la cadenza delle note, si fanno più frequenti ed eccitanti, sì che mi pare che noi due si stia ballando il ballo di San Vito. Con buona pace del sant’uomo!
Ma guarda il caso! Io che sono venuto a tediarmi con lo zio, mi trovo a trastullarmi con la nipote. Oh, Cielo! Trastullarmi! C’è trastullo e trastullo! Questo è un tipo di trastullo innocente, sia chiaro; e, bisogna dirlo, malgrado tutto vi aderisco esclusivamente per non apparire scortese. In fondo, io sono stato ammesso in questa casa per cortesia, per fare un’intervista al Professore e, per cortesia, non posso rifiutarmi, adesso, di aderire ad un invito così esclusivo e apparentemente esplicito di Elena. Mettiamola così, se vi piace! (chi mi crede mi crede!)
Lei, intanto, sempre strattonandomi e avvinghiandosi a me con una tenacia degna di miglior causa, quasi il naufrago sperduto all’unico salvagente, di concerto con la musica in un suo passaggio particolare esegue una repentina piroetta che finisce in caschè. Io, che non me l’aspetto e navigo in tutt’altri pensieri, non reggo all’improvvisa trazione, perdo l’equilibrio e cado tirandomela dietro; e ci ritroviamo tutti e due a terra sul tappeto, saldamente avvinghiati in un selvaggio amplesso: lei, supina, sotto di me ed io, bocconi, su di lei.
Ed è così che ci trova la zia che conduce per mano il fratello, il chiarissimo Cav. Dott. Prof. ecc. ecc. ***********, di questo vallo, che il Cielo preservi sempre dai cattivi incontri.
Entrambi si fermano allibiti, fissandoci con espressione di estrema disapprovazione.
“Ma che fà, porcone!” m’insolentisce la zia “Vuole per caso sedurre mia nipote, e, per giunta, qui, sotto i nostri stessi occhi?”
“… Eh?!” Mi si drizzano le orecchie per l’imprevista battuta; e, sveltamente, slacciandomi con estrema difficoltà dalla stretta spasmodica di Elena (che, ancora sotto i fumi dell’irretente melodia credo non si sia nemmeno accorta dell’arrivo del parentado), recupero la posizione verticale.
Anche Elena, tuttavia, prende ora cognizione della realtà e si alza pure lei.
“Ma che dici, zia! Sei uscita di senno?!” scatta “Stavo semplicemente insegnando al signore un passo di danza. Sfortunatamente lui ha perso l’equilibrio e siamo finiti a terra. Tutto qui!”
“Ah, bè!” consente la zia “Meno male. Nell’altro caso non l’avrei sopportato. Mi scusi, giovanotto. Sa, tante volte le apparenze ingannano. E poi, dico io, a pensarci bene, perché farlo proprio qui sul tappeto quando c’è di là un bellissimo letto a tre piazze, di quelli d’una volta e che oggi non se ne fanno più??”
“Ma veniamo a noi” s’intromette il Professore che fino a questo momento è rimasto a bocca chiusa a considerare gli eventi “Mi dispiace di averla fatta attendere. Purtroppo per lei, questa è l’ora che io dedico alle mie orchidee e non ammetto deroghe. Se vuole, adesso sono a sua completa disposizione. Possiamo passare nel mio studio. Staremo più tranquilli.”
Ho modo di osservarlo. Anzianotto, bassino di statura, pingue, con un faccione rotondo caratterizzato da due occhi scuri e da due baffoni baronali, col pizzo alle estremità, come oggi non se ne vedono più.
Elena, dal canto suo, con una nota malinconica nell’espressione pensierosa, si solleva tranquillamente la minigonna e riallaccia una stringa del reggicalze (come vedete non avevo sbagliato nel supporne l’esistenza!) che nella colluttazione danzatoria di prima si era irrimediabilmente staccata. Poi riabbassa l’indumento ed assume un atteggiamento innocente e soddisfatto, da day after, per intenderci, privandomi della irretente visione della sua soda coscia.
“La prego, mi segua” m’invita il Professore. E, seppure a malincuore, non mi resta altro che aderire alla sua precisa proposta.
Così lo seguo, lasciando dietro di me quel campo di battaglia che si era rivelato prodigo di tante tentatrici promesse, purtroppo irrealizzate, accompagnato dal cordiale sguardo partecipe di Elena e da quello beffardo di sua zia.
Dimmi che studio hai e ti dirò chi sei. Non so se il noto adagio così reciti, ma fà all’uopo mio e lo impiego.
Tetro, incartato sul marrone, con un’enorme scrivania nera, massiccia, intagliata e una libreria pure nera, con gli stessi orpelli. Poltrone vetuste e severe disseminate un po’ dovunque, dinanzi a tavolinetti alti o bassi; un divano di cuoio bottonato alla parete e quadri dappertutto.
Quadrini, quadretti, quadroni, quadrucci, quadracci, a forma quadrata, esagonale, rettangolare, ovale, a cappella, a cerchio, a losanga, con cornici estremamente lavorate, intagliate, scolpite, intarsiate, contornanti tele raffiguranti santi, avi, episodi storici, letterati, papi, capi di stato, scienziati, navigatori, eccetera, eccetera, eccetera.
Il Professore mi precede e va a sedersi su uno scanno dietro la scrivania.
“Si accomodi, prego” mi dice. E anch’io mi siedo su una poltrona al di qua di essa. Attraverso il balcone che s’apre a breve distanza alla mia sinistra scorgo una finestra dirimpettaia, sicuramente dipendenza della casa, nella quale, simultaneamente al mio sedermi, viene accesa la luce.
“Cosa vuole sapere da me?” taglia corto con cipiglio deciso il mio illustre interlocutore.
Io mi ero preparato delle domande, è vero. Ma, al momento, non me ne sovviene alcuna. Annaspo, quindi, con lo sguardo sperduto nell’aria, come quando a scuola, interrogato, non sapevo che rispondere perché impreparato. Poi mi ricordo che avevo compilato una scaletta su un pezzo di carta che dovrei avere da qualche parte e nella speranza di trovarlo mi frugo alacremente visitando con le mani tutte le tasche della mia giacca. Ma inutilmente. Non trovo niente.
“E allora?” incalza il Professore, vedendomi in difficoltà “Va bene, ho capito, l’aiuto io. Lei vorrà certamente sapere qual’è il mio punto di vista sulla sfera politica in generale. Vero? E’ la prima cosa che mi chiedono tutti. Veda, la politica, secondo me, è un grandissimo carrozzone dove ciascuno tira l’acqua al proprio mulino, pur declamando i migliori altruistici intenti. Tuttavia, lei, in coscienza, ritiene che questi programmi prima dell’elezione tanto reclamizzati si risolvano, poi, in un vero e proprio beneficio per i meno abbienti, eh? O che spesso, invece, sfocino nel più assoluto nulla dissolvendosi come nebbia al sole? Eh? E’ chiaro, comunque, che non bisogna mai fare di tutta l’erba un fascio: c'è chi, al potere, è animato da una sincera volontà di aggiustare le cose e c'è chi no; il negativo e il positivo sono sempre forze complementari; ma per la stragrande maggioranza dei casi succede così, che le cose vanno sempre peggio, cioé. E poi, pensi un po’: una congerie di partiti superflui, quando ne basterebbero due soli, uno del bianco e uno del nero; una corrente di pensiero fattiva e la sua logica opposizione. Tutto qui. Se ve ne sono tanti è perché ognuno vuole arrivare in cima, attirato dal miraggio del comando. E cosa produce tutta questa congerie di partiti se non una miriade di leggi che confondono e irretiscono più che favorire la civile convivenza? Si ricorda cosa dicevano i Latini?...”
“No.. veramente no …” biascico imbarazzato.
“Bé, glielo dico io. I Latini dicevano: plurimae leges, corruptissima republica! Questo dicevano i latini ed avevano ragione…. Ma che fà?... Non prende appunti?...”
“… Eh?.. No, no.. non è il caso… Ho portato con me questo piccolo registratore…” e lo estraggo.
“E’ già in funzione?” s’informa il Professore.
“… No… veramente… no..” constato con qualche impaccio.
“E, allora, l’accenda, perbacco!” si spazientisce il cattedratico.
Eseguo, vergognoso per non averci pensato prima.
“Continui, la prego…” lo invito a mò di scusa.
“… E poi...” prosegue il Professore “... in un momento storico come quello attuale in cui la Nazione è col culo per terra (mi lasci passare il termine, la prego) anziché appigliarci alle nostre innegabili risorse, che facciamo? Niente! Si continua ad aumentare le tasse per salvare il paese. L'unico rimedio al dissesto che i governanti sanno trovare è proprio questo!..Le tasse!. E come scoprire l'America sulla carta geografica!”
“… Perché, cos’altro si potrebbe fare?…” chiedo io, tentando di recuperare il mo status.
“Come, che altro si potrebbe fare!!??” allibisce il mio interlocutore, guatandomi con stizza nel più profondo degli occhi “Che è un allocco, lei? Per cercare di rinsanguare le anemiche casse dello Stato senza vessare i cittadini e favorire il lavoro che non c’è, non pensa lei, per esempio, che si potrebbe liberalizzare l’edilizia, che è il motore portante di tutta l'economia e che, purtroppo, attualmente langue soffocata da innumerevoli assurdi divieti? Pensi a quanto potrebbero incassare i Comuni se ogni proprietario di un pezzo di terra o di uno stabile potesse costruire, ampliare, rimodernare la propria casa, soprattutto in campagna, senza ostacoli o dirimenti! Liberamente! Questo si dovrebbe consentire, purché si eseguano i lavori nel rispetto delle più moderne tecniche costruttive e si paghino i relativi oneri in rapporto a quanto si è realizzato! Per non parlare, poi, delle locazioni! Anche lì è stato difficoltato tutto! Siamo arrivati al punto che per affittare un immobile, oggi, sono necessari: il certificato energetico, il certificato che attesti la funzionalità delle apparecchiature, il certificato dell'impianto elettrico a norma CEE e chissà cos'altro! Documenti, per chi non ne è provvisto, che, per farseli rilasciare dai Tecnici abilitati si deve spendere più di mille euro. Ed uno che si trova nella necessità di dover affittare per bisogno, anziché cominciare ad incassare per risollevare le proprie condizioni è costretto, invece, a spendere soldi che magari non ha per mettersi in regola! Senza considerare, poi, che il reddito che gli proverrà dall'affitto farà cumulo col resto delle altre sue entrate e, in pratica, va a finire che, a conti fatti, lo Stato si becca in tasse la metà dell'ammontare del canone annuo che viene percepito mentre tutte le spese sostenute sono rimaste a carico del povero locatore! E poi mi parlano di crescita!! Tutto ciò, secondo lei, non favorisce il nero anziché bandirlo? No?! E, passando di palo in frasca, come si dice, che cazzo (mi perdoni, di nuovo, l'uso del termine. Non si scandalizzi; il fatto è che sono veramente arrabbiato perché le imposizioni vessatorie non le sopporto, come quella, per esempio, che vieta in campagna di bruciare sterpi! E, quando sono veramente arrabbiato come adesso, mi consenta, perdo il lume della ragione) ci fà il nostro contingente militare all’estero in missione di pace? Pensi un po’: in missione di pace! Ma che missione di pace e missione di pace del cavolo! Quelli sono sempre in guerra e i Nostri stanno lì a farsi ammazzare inutilmente quando qui, in patria, potrebbero servire di rinforzo alle Forze dell’Ordine e lottare proficuamente contro la delinquenza facendo risparmiare allo Stato, nel contempo, tutti quei svariati milioni che è costretto a sprecare giornalmente mantenendoli fuori. E ancora, mi permetta, ma lo debbo proprio dire: che cazzo (e qui non chiedo più scusa!) ci fanno entrare tutti questi extracomunitari nel nostro paese quando non c’è lavoro neanche per gli stessi Italiani? Mare nostrum, viene pomposamente definita l'operazione! Dovrebbero, invece, denominarla Mare vestrum! Questi migranti, per sopravvivere, al novanta per cento finiranno ad incrementare le fila della malavita; senza contare che il loro soggiorno è interamente pagato da noi! E a non voler valutare, poi, il pericolo delle malattie che costoro possano portare fra la nostra gente: l’Ebola, per esempio. Che la fortuna ci arrida e ce ne scansi! Ed è un bell'assicurare da fonti accreditate che la possibilità di contagio in questo caso è molto bassa perché la lunga durata del loro viaggio supererebbe i fatidici ventuno giorni dell'incubazione del virus e, quindi, l'ipotetica patologìa nel migrante sarebbe immediatamente riscontrabile e il soggetto, individuato, verrebbe subito ricoverato ed isolato per le indispensabili cure del caso. E lasciando andare questo triste e tristo argomento, le dirò, inoltre. che bisognerebbe anche favorire e potenziare l’agricoltura, che oltre al turismo e all'edilizia rappresenta anch'essa una indiscutibile valida risorsa (ricordiamoci, soprattutto, che una volta la Sicilia era considerata il granaio d’Italia!) e, contemporaneamente, mettere un tetto limitato ai redditi dei parlamentari e di tutti quanti i superburocrati che lavorano per lo Stato. E, per finire, affermo che, perché una nazione si possa definire veramente civile, bisognerebbe anche promulgare una legge che limiti il potere di chi governa a mettere le mani ad libitum nella tasche dei cittadini! Qualche giorno, mi creda, se le cose manterranno l'attuale andazzo, mi deciderò a scrivere a Renzi per sottoporgli tutte queste mie osservazioni; chissà che non lo inducano a pensarci su! E con questo la politica è liquidata. Circa il fatto, poi, se io sia agnostico o no...” prosegue il Professore “... mi creda, anche questo è un argomento obbligato che desta sempre la universale curiosità, io, che ho settantasette anni, ho per fermo che fra ottant’anni mi troverò sicuramente nelle identiche dimensioni e condizioni in cui mi trovavo ottant’anni fa. Se non esistevo prima, non esisterò dopo.”
“… Ma… se…” obietto.
“Non c’è né ma né se che tengano, caro amico!” stigmatizza, ignorando i miei inespressi dubbi, il mio agguerrito anfitrione. “E con ciò anche questo argomento è pure liquidato. Diversamente, resteremmo qui a discutere e a pestare l’acqua nel mortaio sino a domani e oltre, citando Bibbia e Vangeli, apocrifi e sinottici, e tirando in ballo fantasie quali l’anima che nasce e poi rimane in perpetuo, la catarsi dopo la morte, il mondo dell’aldilà, tutte queste belle credenze, frutto della presunzione e della paura atavica dell’essere umano e tante altre tiritere e ipotesi che la mente, questo grandioso giocattolo, come lo definiva Chaplin, può partorire. Conosce Chaplin?
“… Chaplin?... Certo che lo conosco! Lo considero un maestro. E’ nel film Luci della ribalta, se non sbaglio, che dice questa cosa qui... del giocattolo”
“Bene, non sbaglia. Vedo che qualche memoria la conserva. Circa, inoltre, come siamo sistemati su questo nostro tribolato pianeta (intendo qui riferirmi alla coesistenza di tutte le genti) ho da dirle che se una dimensione intelligente venisse da un altro sistema solare ad osservarci, sinceramente ci prenderebbe tutti per matti.”
“… Ma.. perché, scusi?..”
“Come, perché? E me lo chiede?! Un giovane dalla faccia così intelligente come la sua?! Eh?! Ma perché, diamine, il nostro modo di comportarci è del tutto risibile... Non le pare? Infatti, invece di adoperarci tutti per il bene comune, attesa la precarietà dell’esistenza (bene comune che sarebbe quello di cercare di vivere tutti nel miglior modo possibile tentando di neutralizzare i guai, se non tutti, almeno in buona parte, le inefficienze e le rimanenti res adversae, insomma), che facciamo?”
“… Che facciamo?...”
“Spendiamo ingenti somme in armamenti e nella creazione di nuovi mezzi di distruzione e di morte; e ci si fà la guerra l’un l’altro, come se la nostra permanenza su questo pianeta fosse eterna.”
“… Ma… allora?...”
“Allora, a mio vedere, bisognerebbe che tutti i popoli si consorziassero in un unico stato (Stati Uuniti della Terra) mantenendo soltanto un adeguato contingente militare per l’ordine pubblico; e, di conseguenza, facendo defluire tutte le risorse risparmiate, destinate, appunto, alle guerre, agli armamenti e ad altre stupidità abissali, verso più proficue finalità, quali la sanità, l’assistenza, i servizi funzionanti, la collaborazione e quant’altro.”
Rimango stupito a guardarlo. Lui, intanto, continua indefesso.
“Per non parlare, poi, delle magagne interne…”
“Ce ne sono?...”
“..Come, se ce ne sono??!! Ma dove vive lei? E di che stiamo parlando, adesso? Certo che ce ne sono! Riprendiamo l’argomento sanità a cui accennavo prima, pubblica, per esempio: il sacrosanto diritto (dacché paghiamo le tasse e che tasse!) di tutti di essere, al bisogno, consigliati, indirizzati, accuditi e curati al meglio. Mi creda: l’istituto esiste ma è carente. In realtà oggi, qui, la situazione rispecchia quella di un grande mercato dove vige esclusivamente la legge della domanda e dell’offerta. Chi ha, può curarsi bene accedendo anche all’assistenza privata. Ma per chi non ha, mi lasci per favore ancora una volta passare il termine, amico caro, sono cazzi amari. E non voglio aggiungere altro su questo argomento, perché già ho detto troppo. Non parliamo, poi, dei diritti del singolo nei confronti del sistema: esistono, si, ma per farli valere, quando ci si riesce, bisogna impantanarsi in un iter burocratico così intricato, così complesso, spesso così incomprensibile, che, frastornati, molti rinunziano addirittura ad intraprenderlo. Le cose potrebbero essere facili, ma pare che l’essere mano goda nel difficoltarle. Così ognuno, chi più chi meno, secondo la propria condizione, naturalmente, perché la condizione sociale, checché se ne voglia dire, c‘entra sempre, eccome se c’entra, ognuno, dicevo, in pratica si trova indifeso di fronte a qualsiasi amministrazione. Di certo esistono soltanto i doveri e guai a non osservarli: scattano subito le sanzioni, ammenoché non si parli di ravvedimento operoso! Pensi un po’: ravvedimento!! E’ il Potere che si dovrebbe ravvedere per il gravame che ci commina, non il contribuente!
A ciò, mi consenta di aggiungere ancora un’ultima cosa e concludo: io non sono antifemminista, come si vuol far credere da parte di certa stampa imbrigliata da alcune direttive padronali. Non lo sono nella misura in cui il movimento femminista propugni l’ideologìa che vuole la donna uguale in tutto e per tutto nei diritti umani all’uomo. Questo mi pare più che giusto. Tuttavia non posso fare a meno di osservare che tale fenomeno, esasperato da alcune avanguardiste che si piccano di portare uno stendardo, si risolve il più delle volte nella lotta al maschio e basta. Detronizzarlo e prenderne il posto! Questo, l’inespresso recondito intento, seppure formulato a livello inconscio, del movimento! E ciò non lo sopporto! In più, questa corrente foga che vuole la donna esclusivamente realizzata fuori dalle pareti domestiche mi pare completamente insana; e, in buona parte, lo è. Ad ogni modo si rivela controproducente. Infatti, appunto a causa dell’odierna massiccia occupazione, da parte delle donne, dei posti di lavoro che una volta erano esclusivo retaggio degli uomini, accade inevitabilmente che molti di costoro oggi passeggino, umiliati e offesi, col complesso di inferiorità nei riguardi delle proprie compagne e con le conseguenze negative facilmente immaginabili. I ruoli sociali si sono confusi, per non dire in buona parte invertiti, caro mio. Ribaltati! Una volta la famiglia si sosteneva su altre basi, i figli venivano su più educati e a scuola imparavano di più; oggi con le moderne teorie, grazie soprattutto ai raggiungimenti conseguiti in tanti campi, non ultimo quello della morale, la povera famiglia s’è scombussolata del tutto e la società è in degrado. Almeno così la vedo io!”
“E su questi matrimoni gay, che dice? Li approva?...”
“Per favore, non ne parliamo affatto! Mi rifiuto categoricamente di considerare questo aberrante fenomeno che pretende un pubblico riconoscimento ad una situazione che normale non è!”
“.. Ma.. allora, scusi, considerando tutto il nostro dialogo, lei non apprezza e non crede a niente, Professore?...”
“No, questo è sbagliato. Credo che la vita sia semplice e non complessa: complessa la rendiamo noi con tutte le nostre statuizioni inopportune che vorrebbero tendere a migliorarla. Come si dice: l’inferno è lastricato di buone intenzioni. E credo anche che il realizzarsi sia possibile nel pensiero e nell’arte. Sono queste le due basilari dimensioni che fanno crescere l’uomo. Da esse promanano tutti gli altri attributi che favoriscono i conseguimenti esistenziali.”
Rimango disorientato a fissare il vuoto dinanzi a me, mentre il Professore, anche lui, si ferma a meditare su ciò che ha appena proferito.
Io, nello scacciare una mosca che ha scelto il mio viso come piano d’atterraggio, giro casualmente lo sguardo e per miracolo non mi prende un colpo. Al di là del balcone e della finestra dirimpettaia, che vedo nella stanza? Una figura femminile si staglia nel vano della imposta e lì, incurante degli oscuri totalmente spalancati, dei vetri aperti e della luce accesa, che fà? In piena epicurea tranquillità va svestendosi. E’ Elena; e, certamente, quella sarà la sua camera.
Con consumata strategìa ella si sfila ad uno ad uno tutti gli indumenti, muovendosi come al suono di un inesistente ritmo, sino a rimanere completamente nuda. Rimango pietrificato alla imprevista e improvvisa visione e trattengo financo il respiro per non turbarla minimamente.
Ed è in questo stato confusionale che il Professore, recuperato il senso del reale, mi vede.
“Si, la capisco” equivocando, mi conforta “Quello che le ho detto l’ha sicuramente galvanizzata. Ma che vuole! Bisogna sempre essere leali, soprattutto con se stessi, ed esprimere sinceramente agli altri le proprie teorie se non si vuole risultare falsi e inefficienti.”
Elena, intanto, di là, si volta nella mia direzione, mi vede (o fà le viste di vedermi proprio allora) e, fissandomi con intenzione, mi elargisce un accattivante complice sorriso, per nulla turbata o inconsapevole delle sue ostentate nudità. Poi, lentamente, indossa un negligè rosa-pallido, trasparente, che rende ancora più seducente il suo tornito e armonioso corpo. La sua mano con femminile indolenza percorre la sua epidermide, come in una lasciva carezza e io sto lì per lì per svenire.
“Su, su, si riprenda!” m’incoraggia il Professore “Per quanto originali, non ho poi espresso tutte queste eresìe che pare l’abbiano tanto colpita. Me ne dà atto?”
“… Io.. veramente…” biascico, cercando di liberarmi dalla soffocazione.
“No, no. Non neghi che si aspettava altri concetti da me..” prosegue imperterrito il mio interlocutore, continuando ad equivocare la natura del mio improvviso smarrimento “Il fatto è che io credo in ciò che le ho appena enunciato e, se non vi credessi, abbia per fermo che non mi sarei sprecato a parlargliene. E adesso, caro figliolo, ritengo di aver esaurito tutte le sue inespresse domande. Torni, quindi, al suo Giornale e cerchi di riportare fedelmente il senso del mio discorso. E non faccia come certi farisei a cui uno dice - A - e, magari, poi ne viene che ha detto - Zeta - . Non c’è peggio dei travisamenti! Purtroppo così va il mondo. E non sottovaluti l’assioma che recita che una delle forme in cui l’agnosticismo si eleva a condizione naturale di pensiero è la catarsi del concetto reale dell’essenza!”
Se prima ero entrato istupidito in quello studio, avulso dalle grazie della procace Elena, ora, alzandomi e salutando il Professore, mi sembra di essere totalmente rincretinito, freddato da quest’ultima incomprensibile logorroica massima.
Lancio un’ultima speranzosa occhiata alla finestra dirimpettaia, mirifico teatro, poco prima, di irretenti e entusiasmanti pantomime; ma, adesso, è vuota e la luce nella stanza è spenta. Segno che Elena avrà raggiunto arcani intimi recessi a me ignoti e vietati.
Esco traballando dalla stanza, recupero il salone d’ingresso e qui ritrovo il volto grifagno della vecchia zia.
Mi dà l’impressione del gufo custode del castello.
“E’ andata bene l’intervista?” Mi scruta come a volermi leggere in fondo all’anima.
“Meglio non si potrebbe” rispondo esausto.
“Ne ero certa” continua la vecchia con sussiego “Mio fratello è stato sempre esauriente ed ha sempre trattato bene le persone intelligenti. Le riconosce a colpo d’occhio” sorride in maniera orribile “Sono lieta di averla conosciuta. Torni qualche volta, se vuole. Faremo due chiacchiere. E anche Elena sarà contenta. Sappia che quella povera figliuola non vede mai nessuno. E’ così timida, casta e ritirata. A volte è così ingenua che mi fà anche commuovere”
La maniglia d’una porta interna intanto si flette, l’anta viene aperta e compare Elena. Non in intimi recessi, dunque, s’era appartata, come opinavo. Ora è interamente vestita, in lungo. E l’abito è nero antracite, con uno spacco laterale, abissale, dal quale fuoriesce una gamba tornita, velata dalla calza a rete.
“…Se ne va di già?..” tuba al mio indirizzo la dolce creatura con una apparente nota di contrarietà nella voce.
“Ho esaurito la mia missione, come vede..” sentenzio fatuamente.
“.. Crede?” Il tono di Elena è volutamente ironico, ora.
“… Perché, non è così?” mi meraviglio io.
“Non so…” tituba lei, con un sorriso indefinibile. Osserva, quindi, una breve pausa di riflessione; poi, sempre fissandomi, continua, sprizzando saggezza da tutti i pori “Sono molte le cose nella vita che a noi sembrano compiute e…che invece non lo sono affatto…”
“..Certo… sicuro.. non lo nego…. Tuttavia…” tento di obiettare.
“E questa…” prosegue imperterrita lei “.. questo nostro fortuito incontro, è una di esse. Va ancora maturato, ecco tutto!”
“Ma va!…”
“Proprio così!”
“Io l’ho sempre sostenuto!” s’intromette la zia “Nella vita non c’è mai niente di compiuto. Tutto è sempre in via di modificazione, come diceva quel pazzo: tutto scorre. Perché, poi, abbia pensato all’acqua, questo non l’ho proprio mai capito!”
“… Se non ha premura..” riprende, costante, Elena “vorrei parlarle dei miei svaghi preferiti… Farle vedere i miei libri, i miei lavori di pittura, la mia collezione di… stampe cinesi…”
“Ma si, dico io!” riattacca la zia, strattonandomi un braccio per evidenziare la bontà della proposta “Non può rifiutarsi! Non sa quello che perderebbe!” e poi, alla nipote “Elena, perché non cominci col fargli girare la casa? Già dall’ambiente può farsi un’idea di quello che siamo veramente noi. No?”
“Questo è un programma che mi va molto” fà Elena; e poi, rivolta a me “Che ne dice?”
Io sto sudando come se fosse Agosto.
“Se non disturbo… per me va bene…” farfuglio, fissando Elena con sguardo esagitato.
“E allora che aspettiamo?” prorompe Elena soddisfatta “Andiamo subito senza frapporre ulteriori indugi!”.
“Si, si, andate ragazzi” c’incoraggia la zia. E poi, ad Elena “E non dimenticare di fargli vedere quel bellissimo letto a tre piazze che mi regalò mio nonno e che non credo abbia l’eguale...”
Elena le lancia un’occhiata profonda.
“Non ti preoccupare, zia...” la rassicura “E’ là che faremo la prima tappa!...”
Giuseppe Maggiore
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