5 Luglio 2015, 20:30 - Giuseppe Maggiore [suoi interventi e commenti] |
"... ACCADDE... IN PENOMBRA..."
(aneddoto informale)
Accadde molto tempo fa, quando avevo appena 17 anni e frequentavo la seconda liceo. A Cefalù. Nel cinquantaquattro o nel cinquantacinque? E chi se ne ricorda più. Nella memoria restano solo gli accadimenti, ma, spesso, non le date.
Avevamo concertato, noi giovani leoni aspiranti ad una desiderata maturità, una festa da ballo per festeggiare la chiusura di quell'anno scolastico.
Allora, il ballo, era l'unico modo consolatorio per ottenere un innocente contatto fisico con una ragazza.
Oggi sembra preistoria!
Ci si organizzava alla meglio: gli amici proprietari mettevano a disposizione la casa, qualche altro forniva il grammofono a manovella con dei dischi di ballabili (tango, mazurka, foxtrot, ecc.) e tutti insieme dei dolciumi da innaffiare con qualche beveraggio del quale ho perso i connotati.
Per le ragazze ci pensavamo pure un po' tutti; invitavamo compagne di scuola, amiche delle nostre sorelle (per chi ce le aveva), alcuni portavano delle loro conoscenti che erano riuscite ad ottenere il consenso familiare o che mettevano in atto qualche sotterfugio per raggirarlo, altri delle estranee.
La serata aveva avuto un inizio molto tiepido. La fraternizzazione non fu immediata; ognuno di noi, tranne i più spericolati (antesignani del carattere della gioventù moderna), conservava quel senso di timidezza che ancora i tempi e l'età non avevano dissipato.
Gli amici di Palermo, Arturo e Giancarlo, più grandi di noi di qualche anno e per questo motivo da noi guardati con una certa invidia e rispetto perché già loro erano ammessi in luoghi a noi minori vietati ed entrambi al primo anno della facoltà di legge all'Università di Palermo, allora in Via Maqueda, si erano dati un gran da fare per racimolare elementi femminili di un certo valore fisico; ma con scarsi risultati. Erano riusciti soltanto a convincere qualche estroversa suffragétta palermitana ad essere della partita.
Si era arrivati, insomma, con l'apporto comune, a racimolare una ventina di presenze, fra maschi e femmine: queste ultime, in numero leggermente inferiore ai primi.
Fra le presenti notai due ragazze, mie coetanee, stranamente silenziose, che apparivano l'una all'opposto dell'altra.
La più alta era una vera bellezza: fine, elegante, dallo sguardo profondo, pensieroso, sciolti i capelli neri le ricadevano sulle spalle creando ondulazioni e riflessi; l'altra, più piccola, era pienotta, bassina, castana, ma attraente pure lei.
Al primo formarsi delle coppie io rimasi un po' a considerare la situazione: vidi che anche le due sconosciute erano rimaste al palo, sedute anche loro ad osservare ambiente e personaggi.
Poi mi decisi e, per saggiare il terreno, andai ad invitare la ragazza più attraente.
Non era un tango, ma un lento che allora veniva definito ballo del "mattone", appunto perché ci dava la possibilità di non svolazzare a destra ed a manca, ma di rimanere fermi in un punto stringendo più del necessario la fanciulla del momento. Quando lei ci stava, naturalmente.
Era tutto un giuoco di sguardi, di confidenze sussurrate, di giudizi più o meno benevoli sulle altre coppie, di atteggiamenti alla Jacopo Ortis; una tecnica, insomma, che favoriva l' "incontro ravvicinato del secondo tipo".
Non dimentichiamo che l'influsso del romanticismo era, allora, ancora in auge.
Da lei seppi che si chiamava Clara, che frequentava pure lei la seconda liceo e che l'altra ragazza grassottella che l'accompagnava, Danila, era sua sorella.
Non è che le serate portassero a granché; comunque, ci si passava il tempo e noi restavamo soddisfatti e l'aureola del conquistatore credevamo che aleggiasse sulle nostre teste.
Illusioni del tempo perduto (Proust ne ha scritto qualcosa)!
Ballai più volte con Clara e, per gentilezza, anche con Danila, tanto da creare un certo legame di giovanile simpatia fra noi che preludeva ad una conseguente loquacità. Seppi da loro che erano di Palermo e che era il primo anno che venivano a trascorrere l'estate a Cefalù presso una loro vecchia zia che abitava in un'antica villetta nella estrema periferia della città.
Non so se per discrezione o per altro ignorato motivo, vedendo me e le due ragazze costantemente a confabulare, nessuno degli altri amici venne mai ad invitarle; tutti si comportarono come se loro non esistessero neppure.
Alla fine della serata, la insorta confidenza era giunta ad un buon livello; tanto che, saputo che erano venute da sole e presa cognizione che si eran già fatte le nove di sera, proposi loro di accompagnarle a casa.
Esse non rifiutarono e, accomiatatici dagli ultimi sparuti rimasti (qualcuno se n'era già andato prima), quasi solo ragazzi, prendemmo la via che conduceva a questa loro fantomatica dimora.
La strada (lo stradale che porta a S. Lucia) allora era più stretta di quanto non lo sia adesso; il traffico era pressoché inesistente e l'illuminazione stradale arrivava soltanto sino alle ultime case del paese, cioè, poco dopo il Monumento dei Caduti; poi si procedeva quasi nella penombra alla incerta luce degli astri, illuminati, a tratti, dai lampioni dei carretti che rientravano tornando dal faticoso lavoro dei campi.
Nel baluginare dell'ultima chiarìa, residuo dell'avvenuto tramonto, estrema luce del giorno, camminammo rimestando reciprocamente le impressioni sulla trascorsa serata.
Clara m'informò che, invece, nella capitale questi incontri danzatori avvenivano in maniera più frequente di quanto non avvenissero in provincia e che, in certi periodi dell'anno, addirittura, si proponevano con cadenza quasi settimanale e che, comunque, c'era una qual certa maggiore libertà per le ragazze per la condiscendenza da parte di più evoluti genitori.
Tra una chiacchiera e l'altra (Danila, sicuramente per carattere, rimaneva fuori dai nostri conversari) si giunse, poche decine di metri dopo il passaggio a livello della Gallizza, ad una stradina, che, dipartendosi dalla nazionale, a sinistra, s'internava in un folto gruppo di macchie e che, dopo un centinaio di metri circa, sfociava in un ampio spiazzo sul quale sorgeva un informe caseggiato dall'aspetto, al chiaro di luna che era appena sorta, ottocentesco.
Non ero mai stato in quel luogo.
- Ecco, siamo arrivate.... - mi disse Clara - Perché non vieni su a prendere una tazza di caffè?... -
- Non vorrei disturbare vostra zia...- obbiettai.
- Ma no, non ti preoccupare... Dorme sempre a quest'ora... Non la vedrai nemmeno... -
Non avendo da accampare altri pretesti, seguii le due ragazze su per una larga scala con i passamano in ferro e raggiungemmo il piano nobile.
Transitando in un salone molto bene arredato ed illuminato dalla fioca luce di una lampadina, pervenimmo ad un salottino raccolto, dove, alle pareti, figure di personaggi che furono erano incorniciate in grandi quadri e tappezzavano le pareti.
Dopo avermi fatto accomodare, Clara, scusandosi, si eclissò per andare a preparare il caffè; così rimasi solo in compagnia di Danila.
Di che parlai? Ah, si! Parlai del bell'arredamento della casa e dei suoi pregi intravisti passando. E di che altro avrei potuto parlare con lei, data la difficoltà a cavarle di bocca qualche parola?
L'attesa, comunque, fu breve. Presto Clara rientrò portando un vassoio con su il bricco, la zuccheriera e tre chicchere. Poggiò il tutto sul basso tavolinetto del centro, attorniato dalle poltrone, versò il liquido nelle tazze, zuccherandolo, poi si sedette anche lei.
- Una buona tazza di caffè è quello che ci vuole per fugare la stanchezza. Non ti pare?... - osservò Clara, sorseggiando la sua pozione.
- Certo... - convenni - ... è proprio quello che ci vuole… Però non credo che concili il sonno... -
- È tutta questione di abitudine... - proseguì Clara - io lo prendo sempre la sera, ed anche Danila... Per la mia famiglia è quasi un rito... -
Poi, non so come, s'introdussero argomenti che niente avevano a che spartire né con la nostra giovane età, né col tono della serata, né con le mie più riposte mire: argomenti sulla vita, sul modo di viverla, sulla sua finalità, sul suo senso più recondito, sull'imprevisto caso e su quant'altro.
Ad un certo punto Clara mi pose una domanda diretta: secondo me era giusto che dopo che si fosse pienamente vissuta una vita, tutta la nostra acquisita esperienza, tutto il nostro ipotetico raggiunto valore, tutta la nostra conquisa maturità avessero inesorabilmente a dissolversi nel completo annientamento prodotto dalla morte? Dal tutto al nulla, insomma? Un salto nel buio?
Rimasi interdetto. L'argomento stonava totalmente con lo spirito brioso che ci aveva animato per tutta la serata; e poi, tutto mi sarei aspettato da una ragazza come Clara, ma non queste involute considerazioni.
- ... Si, non mi pare giusto... - affermai, con molta perplessità - ... che tutto debba finire così, irrimediabilmente... -
- Infatti... - riprese a dire Clara con convinzione - ... È triste abbandonare tutto ciò che si è riusciti a raggiungere... Tuttavia la fine è naturale come lo è la nascita... Noi siamo frutto della materia e ciò che ci riscatta è la coscienza, il senso dell'esistenza, il giudizio... Ma, malgrado tutto ciò, niente ci può salvare... si arriva sempre a quell'inevitabile conclusione... È una crudeltà inesorabile, si... ma, forse, necessaria!... -
Fortunatamente, però, la conversazione non andò per le lunghe. D'altronde s'eran fatte le 22. Le ragazze si dimostravano disponibili a continuare a parlare, ma io, temendo che lo facessero solo per pura cortesìa, aspettando che fossi io ad accomiatarmi, ad un certo punto mi decisi.
- S'è fatto tardi… - constatai - … è stato un vero piacere conoscervi. Ho trascorso una bella serata... Se mi avessero detto che stasera avrei incontrato due belle ragazze come voi, certamente non vi avrei creduto... Perché non ci rivediamo domani, se non avete impegni, e, magari, facciamo una bella passeggiata?... -
- ... Con molto piacere... - consentì Clara, d'impulso. Danila, per la verità, non disse niente: rimase come assorta a guardare le tre tazze ormai prive di contenuto e abbandonate sul vassoio.
Mi accompagnarono, comunque, entrambe alla porta. E fu lì che io proposi loro l'orario.
- Va bene per le dieci? -
- … Si, se ci tieni... - assentì Clara.
E, contento di quanto m'era capitato, ripresi la strada del ritorno sotto l'argenteo raggio di una splendente luna piena.
Non ci dormii granché quella notte, pensando all'incontro progettato. Clara mi piaceva e, quasi quasi, inconsapevolmente, me n'ero innamorato.
L'indomani, con una buona mezz'ora di anticipo presi la strada per andare all'appuntamento con Clara e Danila. La giornata era calma, seppure velata da un sottile strato di nubi che dava alla luce una patina antelucana d'altri tempi.
Oltrepassato il passaggio a livello imboccai la nota stradina laterale e raggiunsi lo spazio su cui sorgeva il fabbricato.
Strano, a differenza della sera prima la costruzione mi apparve fatiscente e sinistra: l'intonaco screpolato, varie crepe nei muri, il portone e le imposte del primo piano abbastanza sgangherati. Ebbi la sensazione di aver sbagliato luogo e fui varie volte sul punto di tornarmene indietro e cercare altrove.
Eppure non potevo sbagliarmi: il posto era quello, non poteva che esser quello.
In tale dimensione di dubbio cominciai a bussare sbattendo il batacchio arrugginito che era sul portone. Ma nessuno venne ad aprire o a rispondermi: la casa pareva disabitata. Il tempo dell'attesa si protrasse per più di mezz'ora senza che io riuscissi a farmi sentire da qualcuno.
Ad un certo momento, dal folto delle macchie circostanti apparve un uomo vestito alla buona, una specie tra villico e custode. Lo interpellai, fiducioso.
- ... Immagino che lei sia il portinaio... -
- Infatti... - mi rispose, arcigno.
- … Guardi, io avevo un appuntamento con le signorine Clara e Danila per le dieci e già sono le dieci e quaranta... Non riesco a farmi aprire... -
- Ma qui non ci sta nessuno... - osservò l'uomo - La casa è totalmente disabitata da tempo... -
- Ma non è possibile... - insistetti io - Proprio ieri sera io ho accompagnato qui le due ragazze... che mi hanno detto che villeggiavano assieme ad una loro vecchia zia... Pensi, abbiamo preso anche il caffè, sopra... assieme... -
- Sicuramente lei sta sbagliando luogo - protestò l'uomo. - Le ripeto che qui non ci sta nessuno. L'ultima proprietaria che l'abitò è morta una diecina d'anni fa... Oggi appartiene ad uno che sta in America che non si fà vedere mai e che io nemmeno conosco... Io sono il guardiano e ne curo gli interessi. Vengo qui un due tre volte alla settimana per dare un'occhiata -
- Senta, mi faccia salire sopra... - tentai l'ultima carta.
- Ma a far che? - s'incaponì l'uomo, col tono di chi sta per perdere la pazienza.
- Le dò mille lire se mi ci fà salire... -
Mi guardò come si può guardare un verme, ma con un certo insorto interesse.
- … Bé, per mille lire posso anche farle passare questo piacere. Prima il denaro, però... -
Non credevo di potermela cavare così a buon mercato: estrassi, pertanto, il portafoglio, presi il foglio da mille lire, unica banconota che rappresentava la paghetta settimanale che mi passava mio padre e la consegnai all'uomo senza un certo rammarico.
Questi prese il biglietto, lo fece sparire in una sua larga tasca, aprì il portone con una chiave che estrasse e con un cenno rapido e perentorio della mano m'invitò ad entrare.
Mi si parò dinanzi la stessa scalinata per la quale ero salito su la sera prima assieme alle due ragazze.
- … Ecco, vede, ieri sera siamo saliti proprio per qui... - sibilai, concitato, al portinaio che restò completamente muto.
Alla scalinata subentrò il salone che avevo ammirato in precedenza ed infine giungemmo al salottino dove avevamo preso il caffè.
Effettivamente sul tavolinetto centrale si mostrava in bella evidenza il vassoio con le tre tazze, la caffettiera e la zuccheriera.
- Ecco, vede… - esclamai - proprio qui abbiamo preso ieri sera il caffè... guardi, ci sono ancore le tazze!... -
L'uomo, allora, si avvicinò al tavolinetto a considerare gli oggetti.
Senza nemmeno voltarsi e con tono indifferente proferì una laconica constatazione
- Due tazze sono bell'e pulite... -
A mia volta mi avvicinai al mobile ed osservai le preziose chicchere di un servizio di pregio. Effettivamente una sola di esse risultava ancora sporca di caffè; le altre due erano linde come se non fossero state mai usate.
Poi mi venne fatto di voltarmi verso una parete su cui erano appese due foto. Incuriosito mi vi diressi.
I primi piani di Clara e Danila mi guardavano con un sorriso evanescente sulle labbra lievemente dischiuse.
Mi rivolsi al mio interlocutore con una cert'aria di superiorità.
- Vede bene che non mi sbagliavo? Queste sono, appunto, le due ragazze che ho accompagnato qui ieri sera e assieme alle quali ho preso il caffè... -
Con aria cupa l'uomo mi fissò e mi disse, sillabando le parole:
- Sono morte da cinquant'anni, quelle due!... -
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(Su questo episodio ho, poi, imbastito la trama del mio film indipendente "Il Buio" del 1965 da cui sono state tratte le immagini)
Giuseppe Maggiore
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