13 Gennaio 2016, 07:39 - Rosario Ilardo [suoi interventi e commenti] |
La Rocca di Cefalù e il «Santo Monte» Athos
(a proposito di turismo e “ascese meccaniche” alla Rocca)
Franco D'Anna, Kefaloidion, 2002, olio su tela, cm. 120x100
Sabato scorso, 9 gennaio, al termine del convegno di studi sul Tempio di Diana, tenutosi nella Sala delle Capriate del Palazzo di Città, il Sindaco ha comunicato ai convenuti che la Soprintendenza ai BB. CC. e AA. di Palermo ha rigettato in toto la proposta progettuale avanzata da un privato volta a realizzare un impianto di seggiovia per ascendere alla vetta della Rocca, da installare sul versante orientale della parete rocciosa, a margine dell’area cimiteriale antistante a quella della protezione civile.
La fermezza con cui la Soprintendenza si è pronunciata, è una buona occasione per offrire qualche spunto di riflessione in merito alle “ascese meccaniche” alla Rocca, che, in tempi e modi diversi, sono state portate all’attenzione della comunità locale e delle pubbliche istituzioni.
Quante volte siamo stati fermati per strada da un ignaro turista, sentendoci rivolgere la stessa domanda: « Scusi, quanto tempo ci vuole per salire sulla Rocca?».
Mi sono preso l’abitudine di rispondere alla maniera dei monaci del «Santo Monte» Athos, nella penisola calcidica, in Grecia: «Quanto vuoi tu».
Già, perché dipende solo da noi, dalla nostra buona volontà, dalla nostra pazienza, dal ritmo dei nostri passi, da una pietra, da un coccio, da un fiore selvatico, da un cespuglio di “disa”, da una rigogliosa euforbia, dal canto gradevole di una cinciallegra, dalle pause che ci ritemprano, dalla percezione del silenzio, dalle vedute che rapiscono lo sguardo, dagli scorci seducenti, dagli incontri che ci arricchiscono lungo il cammino …
Dobbiamo imparare a correggere i nostri errori e a rivedere le nostre “cattive abitudini”.
Dobbiamo imparare a rivalutare la fatica, che può «redimerci dal peso della nostra isolana pigrizia».
Dobbiamo imparare a «mandare indietro i nostri cuori imbalsamati, pari a delle reliquie nei nostri regni desolati».
Dobbiamo imparare ad apprezzare e a misurare il tempo, che è un valore. E lassù, sulla Rocca, al pari del «Santo Monte» Athos, il tempo assume una dimensione altra, la sua misurazione è “senza tempo”, ha un valenza soggettiva, interiore, intima, ascetica, infinita.
Ma cosa ci spinge a salire sulla Rocca?
Si può salire sulla Rocca per ancestrale attrazione, per «curiosità interiore», per fede, per ricerca del «sacramente nascosto», per contemplazione, per ragioni di studio, per ritrovare sé stessi, per condivisione, per gioia, per inquietudine, per allontanarsi dal qui, ora e subito … «Salebrosum scandite montem» (Salite l’aspro monte), così recita l’iscrizione incisa nella tarsia del «Monte della Sapienza», nel pavimento del Duomo di Siena: è l’esortazione rivolta al credente, ma non solo al credente, ad intraprendere l’erto cammino che porta alla sommità del Monte, là dove ha sede la Sapienza divina.
Salire o, meglio, “ascendere” al colmo della Rocca, a «passo lento e lievissimo come il mormorio di un vento leggero», è come intraprendere un viaggio nel tempo, che, prima ancora che culturale o turistico, è spirituale e valoriale: solo i nostri passi tardi e lenti, «calpestando terra, roccia, fango e limo», possono indugiarci a riscoprire un mondo dimenticato, che, pur essendo da tempo immemore sotto i nostri occhi, non abbiamo mai osservato abbastanza per la fugacità con cui viviamo la nostra esistenza, non abbiamo mai apprezzato abbastanza nella sua pienezza, nella sua “rivelazione”, nella sua bellezza. La Rocca ha solo bisogno di vestirsi «dell’abito della sua stessa bellezza», che, col tempo, si è inevitabilmente sgualcito. Rubando un verso all’amico mai dimenticato, Nicola Imbraguglio, mi viene da ripetere: «Tra tanta bellezza, siamo un frammento d’eterno» …
A questo punto, mi pare possa giovare riproporre – confidando nella “pazienza” del lettore – quanto da me scritto nel mio libro L’eccelsa rupe (2013), a proposito dell’idea di una “ascesa meccanica” alla Rocca, che poteva, forse, andare bene 40 - 50 anni addietro, quando fu, di fatto, avanzata e quando i tempi non erano ancora maturi, ma che oggi, per il cammino di “conversione ecologica” che la società civile ha intrapreso, nonché per l’accorata esortazione di papa Francesco a «custodire il Creato» e a celebrare la bellezza della Natura, mi pare, francamente, fuori luogo, specie in rapporto alle caratteristiche e alle peculiarità tipiche ed esclusive del “Parco storico-archeologico, naturalistico e paesaggistico” della Rocca di Cefalù:
«… La rocca è stata creata per essere guardata, ma anche per guardare la Città di cui è parte integrante, direi privilegiata, anzi esprime e manifesta le sue più remote origini, giustificando la sua stessa esistenza: senza la rocca non sarebbe mai nata Cefalù, senza questo “bastione naturale”, che sembra stringere in un rassicurante abbraccio materno la Città, Ruggero II non avrebbe eretto la basilica-cattedrale, «senza il ritmo del mare sulla riva e contro le rocce, il ritmo della nostra rocca contro il vento e il cielo, Cefalù non esiste. Bisogna rendersi conto di quanto mai la natura, per sé, sia il nocciolo permanente di questo luogo»139. Un legame intimo ed antico, dunque, che nessuno, mai, dovrà tradire!
Eppure, con più insistenza di ieri, viene ciclicamente rispolverata l’idea di realizzare un ascensore per risalire meccanicamente il pendio della rocca. Oggi, essendo l’integrità140 dell’ambiente un “valore”, che le coscienze più sensibili e le pubbliche istituzioni sembrano aver recepito con più forza che nel passato, ho maturato la convinzione, a distanza di tempo, che qualsiasi tipo di «collegamento verticale» al monte sia decisamente da rigettare: ascensore esterno o interno alla montagna, funivia, scale mobili e quant’altro ancora. Il lungo processo di educazione delle coscienze al rispetto, alla conservazione e alla custodia dell’ambiente, è conquista recente: 40-50 anni fa era argomento ancora marginale. Proprio oggi che, nei riguardi del Creato, viviamo pensieri e sentimenti diversi che nel passato, proprio oggi che singoli cittadini, famiglie, associazioni, movimenti, comunità, istituzioni, sembrano aver intrapreso un comune e consapevole cammino di “conversione ecologica”, spendere energie e risorse per realizzare un ascensore per la rocca, invece di orientare verso modelli e stili di vita più essenziali, sobri e rispettosi dell’ambiente, è scelta diseducativa, oltre che insano errore: sarebbe l’ultimo esiziale colpo all’ultimo inviolato lembo di terra scampato alla morsa delle illusorie conquiste della così detta “civiltà del progresso”.
Il progetto di un ascensore per la rocca posso accettarlo solo come un esercizio di scuola, e lo dico non per paura del nuovo e della sua «tensione trasformatrice», per bucolico sentimentalismo o per demagogico ambientalismo. A parte l’annosa questione di verificare la compatibilità e l’integrazione delle nuove tecnologie e dei materiali adoperati con la natura dei luoghi; di considerare il reale bisogno dell’opera a fronte del breve, ancorché impegnativo dislivello da superare (ca. 270 m. s.l.m.); di verificare la economicità di gestione dell’impianto, ecc., il problema è un altro. O, meglio, non è solo una questione tecnica. È anche, e prima di tutto, una questione valoriale. Attivare un ascensore per la rocca, svincolato, fra l’altro, da una pianificazione organica degli interventi, sarebbe come spegnere l’eco della sua storia più antica, della sua natura primigenia, della sua dimensione spirituale, del suo afflato poetico. La rocca suppone la fatica, che è storia, fede, poesia. Fatica che è metafora del cammino dello spirito sulla strada della vita, fatica che ci appaga, che ci redime, che diventa amicizia, fratellanza, condivisione, fatica che si tramuta in salutare rimedio alle ansie, alle nevrosi e alle frenesie metropolitane, che sviluppa capacità di adattamento alle avversità, che allerta i sensi, che risveglia i sentimenti, fatica che ci scuote da quello stato di torpore fisico e mentale che noi Siciliani ci siamo cuciti addosso.
Da vecchio, ho avuto modo di arrampicarmi sulla rocca come non mi era mai capitato di fare da giovane. Avventurarsi a passo d’uomo, alla maniera degli antichi pellegrini, lungo i fianchi arditi della rocca, è uno degli esercizi fisici e spirituali più gratificanti che si possa sperimentare. Serve a dare ritmo al respiro dell’anima, a rinvigorire una spiritualità assopita, a ri-vedere il proprio vissuto, a ri-trovare Dio. È una dimensione dello spirito nella quale possono ritrovarsi tutti, credenti e non.
Lasciamo, allora, che questo gigante di pietra, così a ridosso del “progresso”, resti integro, solitario, remoto, selvaggio. Lasciamo che sia la sana e nordica abitudine al camminare a redimerci dal peso della nostra isolana pigrizia, che, per dirla con Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo, è «desiderio di immobilità voluttuosa». Lasciamo che la rocca ci stanchi con le sue asperità, riservandoci la gioia di scoprire, passo dopo passo, terra e cieli nuovi. Lasciamo che sia il ritmo lento dei nostri passi ad accompagnarci lassù, alla scoperta di orizzonti lontani. Lasciamo che sia il battito accelerato dei nostri cuori a parlare con chi ci sta accanto. Lasciamo che sia il fragore del silenzio a coprire l’insolenza dei rumori che fermentano dal basso, aprendoci alla contemplazione dell’Eterno. Lasciamo che la rocca continui ad «irradiare una sorta di benefico antidoto alla demenziale foga edificatoria dei Siciliani»141. Lasciamo che la rocca si divincoli dalla stretta ossessiva del mercato, dalla corsa al facile profitto, dal business della travolgente industria del turismo di massa, che sotto gli auspici della onnipresente “macchina del progresso” e della sua “idea di sviluppo”, si impadronisce di luoghi e di spazi, appiattendo la specificità dei siti e le nostre stesse coscienze. Lasciamo che al Monte, così come agli altri luoghi forti della Città, si avvicinino solo coloro che siano profondamente ispirati, «non attratti dallo zufolo consumistico di masse ma sospinti individualmente da curiosità interiore»142.
Le conseguenze dell’«onda schiumosa del turismo di massa»143, che spesso si infrange, senza regole e senza freni, sui nostri siti storico-archeologici, possono giungere a dissacrare anche un «luogo-forte» qual è la rocca di Cefalù, rappresentando una minaccia costante per il costruito antico e per il contesto naturalistico che l’avvolge. Questo patrimonio può diventare vittima del suo stesso “successo di massa”, della pressione antropica cui verrebbe fuggevolmente assoggettato. Sotto questo profilo, un ascensore per la rocca può rappresentare un elemento perturbatore del secolare sodalizio tra Natura e Storia, una suggestione artificiosa cui sarebbe difficile, per molti, poter e saper resistere.
Per evitare, allora, che la rocca corra il rischio di trasformarsi in un «non-luogo», al pari, oggi, della città bassa, della «parte nuova, realizzata nell’ultimo ventennio, tanto diversa dall’antica, emblematica della moderna cultura […], meno “umana” […], non per niente è la Città dei “condomini”, degli “ascensori”, dei “supermarkets”»144, urge avviare una politica di recupero, restauro e costante monitoraggio del sito, per scongiurare le ricadute pericolose dell’impatto del turismo di massa sulle emergenze archeologiche e architettoniche, oltre che sulla conservazione delle biodiversità, realizzando modelli di sviluppo che siano realmente compatibili, che sappiano coniugare il rispetto dell’ambiente, della storia, della tradizione, della memoria, dell’identità, dell’integrità, dell’unicità del luogo, con la crescita socio-economica della comunità. In definitiva, il vero investimento per il futuro della rocca è quello di preservare, recuperare e valorizzare l’esistente, esplicitando tutte quelle potenzialità che sono rimaste inespresse o ancora nascoste, e che potranno tradursi in “ricchezza materiale” solo se sapremo tutelarle nella loro interezza. Occorre, quindi, procedere con la massima cautela, ma anche con buon senso, evitando di arroccarsi su posizioni estreme, che finirebbero con l’imprigionare la rocca sotto una teca di vetro, generando una sorta di “eco-museo” permanente senza alcuna prospettiva di sviluppo.
Per la verità, la rocca di Cefalù ha conosciuto, sia sul piano della elaborazione, della pianificazione e della programmazione, che su quello degli interventi relativi al recupero e al restauro dei suoi beni architettonici e monumentali, una “stagione d’oro” a partire dagli anni ’70, con la preliminare indizione del Bando nazionale di concorso per la redazione del Piano paesistico particolareggiato della rocca, pubblicato, previa approvazione, il 13 ottobre 1972145. La Commissione giudicatrice, i cui lavori terminarono il 25 febbraio 1978146, ammonì che la fruizione della rocca dovesse restare subordinata: al «restauro di tutti i manufatti esistenti sulla rocca»; alla sistemazione «delle vie di accesso esclusivamente [la sottolineatura è nel verbale, con il chiaro intento di rafforzarne l’intensità espressiva] pedonali, che tengano conto dell’andamento del terreno, che non abbiano dislivelli tali da impedire l’uso a persone anziane, che siano ogni tanto dotati di confortevoli luoghi di sosta»; alla elaborazione di «uno studio scientificamente valido» di tutti gli aspetti storici, architettonici e naturalistici; alle «eventuali alberature o piantagioni se, dove e quando possibile, a giudizio di specialisti della materia»147.
Il concorso per il piano paesistico fece, indubbiamente, da pungolo e servì di sprone per i successivi interventi della pubblica amministrazione miranti al recupero e al restauro delle opere della rocca, aprendo, così, un varco nel futuro assetto naturalistico-archeologico del parco: tra il 1980 e il 1992 furono realizzati lavori per ca. 3 miliardi delle vecchie lire 148. Dopo di che, il velo del silenzio!
Quanto al delicato aspetto della gestione del “Parco naturalistico-archeologico della rocca”, non può prescindersi, a mio parere, dal prevedere una «gestione tecnico-scientifica» del suo patrimonio storico, architettonico, naturalistico e paesaggistico – soprattutto, nella considerazione che alcune delle architetture «sono in luce da oltre tremila anni, altre da più di un millennio, altre ancora sicuramente da più secoli e, quindi, soggette ad ogni azione di degrado, specie in dipendenza di eventi atmosferici, dell’opera dell’uomo, di altri fattori umani» – ed una «gestione amministrativa», che facciano entrambe capo ad un ”organismo” in grado di dare, a quella che «sino ad oggi è stata solo un’etichetta [cioè, Parco della rocca], un volto, una configurazione precisa, carica di significato giuridico, amministrativo e culturale»149. Il tutto a beneficio di un turismo ispirato ed emozionale, fermo restando, però, che la rocca è portatrice di una “ricchezza morale” intrinseca, che trascende qualsiasi dinamica economica correlata ad un incremento esponenziale dei fruitori, servendo, ancor più e ancor prima, a formare le coscienze dei cittadini, a rafforzare il loro senso di appartenenza, a stimolare la loro sensibilità, a riannodare «le antiche memorie storiche […] di questa illustre città».
Quanto sopra richiamato è già abbastanza per farsi un’idea della complessità della materia e degli argomenti trattati, che suggeriscono l’opportunità, se non la necessità, di procedere con passo cauto e rispettoso e, soprattutto, coll’ausilio di un Piano progettuale di ampio respiro e di larghe vedute, che non si limiti, tout-court, a considerare il solo profilo della gestione e fruizione della Rocca o di ciò che appare economicamente più redditizio o conveniente, «ma che, anzi, si elevi a guardare oltre, privilegiando, in un quadro d’intervento organico e unitario, gli aspetti della tutela, della salvaguardia, della ricerca e del restauro, che del primo ne sono presupposto e fondamento».
Anziché alimentare vaghe lusinghe e propagandare facili suggestioni – da ultimo, l’impianto di una funivia velata di intenti solidaristici e, più di recente, quello di una seggiovia – occorrerebbe prendere piena coscienza del fatto che la Rocca non è un monumento qualsiasi, come altri ve ne sono sul territorio, ma è il monumento che, più di ogni altro, più della stessa cattedrale di Ruggero, oggi patrimonio dell’umanità, «ha disvelato le remote origini della Città, ha acceso il sentimento della gente, è entrato nella coscienza collettiva, ha ispirato cantori, poeti e artisti in ogni tempo, ha arricchito di spunti e di colori i diari degli eruditi e intraprendenti viaggiatori del passato, ha propiziato l’accostamento al divino …»: la Rocca è Cefalù, ne è l’emblema, «è la Madonna che tiene in braccio il suo Bambino», è il sigillo distintivo della Città. Il suo capo – si direbbe, oggi, con linguaggio moderno – è un imprinting stampato a fuoco nella memoria collettiva, visiva ed emotiva dei cefaludesi, specie di quelli che vivono lontano, che avvertono meglio di noi, che abitiamo la Città, la struggente nostalgia, il groppo alla gola che scatena la visione del suo luminoso golfo dominato dalla mole incombente della Rocca, la cui icona, che langue in uno stato di permanente crepuscolo, necessita di essere recuperata e rivalutata, mantenendone, però, integra la sua identità, fin nelle sue pieghe più remote e recondite.
Ma quella di Ponente è solo la visione convenzionale, da cartolina, che si ha arrivando a Cefalù: «I cefaludesi “di terra” – scrive mons. Crispino Valenziano – preferiscono, invece, guardarla dall’alto delle colline che la cingono a sud, arroccata, si, al massiccio rosso ferrigno incombente ma più libera e aperta, meno forte e non dominata, meglio sfumata e stagliata nell’azzurro tutt’uno con il capo che le dà il nome e la figura. Ma i cefaludesi “di mare”ne hanno ancora un’altra visione. La colgono dal largo, in prospettiva del doppio golfo che la sua roccia determina tra capo d’Orlando e capo Zafferano protendendosi dentro l’acqua nell’amplissima insenatura dell’Isola».
La Rocca, dunque, si fa guardare a tutto tondo: non esistono prospettive, angolature o scorci più o meno accattivanti, più o meno belli, più o meno interessanti, dove pensare di poter annidare, come proposto da qualcuno, un impianto tecnologico di grande impatto, come quello di una funivia o di una seggiovia.
Potrebbe giovare, a tale riguardo, soppesare il senso e il significato delle parole ammonitrici del prof. Porcinai (autorevole docente della Facoltà di Architettura di Firenze, nonché affermato e apprezzato paesaggista, recentemente scomparso) rivolte a quei cefaludesi che affollavano la Sala delle Capriate del Palazzo di Città, nel lontano 1965: «Anche un solo albero piantato in un posto sbagliato potrebbe alterare e rompere l’armonioso equilibrio esistente sulla Rocca di Cefalù», come, poi, puntualmente avvenne con gli infelici interventi di rimboschimento degli anni successivi.
Un ammonimento severo, di cui far tesoro, che oggi, più di ieri, dovrebbe accompagnare qualsiasi tipo di intervento volto a modificare, direttamente o indirettamente, la fisionomia dei luoghi sulla Rocca, che sia paesaggistico, naturalistico, architettonico, artistico, tecnologico.
Cosa avrebbe pensato e, soprattutto, come avrebbe reagito il prof. Porcinai se, anziché piantare «un solo albero», gli avessero proposto di impiantare un titanico pilone d’acciaio per scarrozzare e sbarcare sulla Rocca orde di turisti vacanzieri? E ciò, nella illusoria e fallace convinzione che «l’onda schiumosa del turismo di massa» - quello, per intenderci, che morde, sporca e fugge – produca solo benessere, ricchezza e progresso per “tutti”.
A mio modestissimo avviso, occorrerebbe aggiustare il tiro puntando, piuttosto, su «esperienze di turismo lento», selezionato e di qualità, meno invadente e frenetico, più motivato ed educato al rispetto dei luoghi e della loro identità storica, più propenso a riscoprire “cammini” a misura d’uomo, tanto in Città che nei dintorni, l’unica forma di turismo in grado di risollevare Cefalù e di farne decollare l’economia e l’immagine, in Italia e nel mondo.
Chi – prendendo pedissequamente a modello quanto realizzato in altri contesti e in altre realtà – continua ostinatamente a farsi sostenitore o promotore dell’idea di una ascesa meccanica alla Rocca, come fosse un’esigenza ineluttabile, come fosse la panacea di tutti i mali, come fosse motivo di attrazione più della stessa Rocca, dovrebbe, con onestà intellettuale, «riconoscere – come bene ha osservato la ricercatrice Valeria Calandra – che i rischi per questo lembo di habitat sono molti e di tipo diverso: la rapida espansione urbanistica dell’abitato, che oramai assedia le pendici della Rocca; la pressione antropica legata ad esigenze turistiche, che porta un numero sempre maggiore di visitatori ad attraversare macchie e garighe; l’aumentato livello di inquinamento atmosferico del centro urbano che, per fenomeni termici ed atmosferici, avvolge con sempre maggiore pressione l’intera montagna ed, inoltre, la maggiore pressione derivante dall’incremento di specie “opportuniste” (ad esempio, per la fauna, gazze, taccole, ratti), che occupano progressivamente le nicchie abitate da specie più rare e delicate. Appare, quindi, in tal senso importante chiedere agli Enti competenti una maggiore attenzione e la messa in atto di concrete azioni di controllo e salvaguardia di questo territorio, unico per bellezza paesaggistica e importanza ambientale, attraverso la creazione di presidi permanenti che operino metodicamente controlli floro - faunistici e suggeriscano, ove necessario, interventi di “wildlife management”».
A conclusione di queste mie considerazioni, che spero possano indurre qualcuno a guardare alla Rocca con occhi diversi, mi piace rifarmi a quanto il compianto mons. Salvatore Cefalù scriveva nella calda estate del 2004, nella sua casa di campagna, a Campella, quando la politica di quel tempo mirava, con logiche clientelari e spartitorie, ad assegnare a “taluni privati” i beni storico-artistici del Comune di Cefalù e, tra questi, proprio la nostra Rocca, sollevando un moto di indignazione collettiva, che valse a sventare la spregiudicatezza di quel proposito: «E’ bene che coloro che hanno il privilegio di rivestire cariche pubbliche diano prova di agire con spirito civico e coscienziosità istituzionale, accostandosi alla Rocca – Libro aperto della creazione e Libro della memoria – con la stessa trepidazione di chi si appresta a sfilare le fibbie che serrano gli impalpabili fogli di un codice miniato, per non offendere il «disegno di Dio creatore» e per non provocare un «disordine» che finirebbe col tradire l’identità stessa dei luoghi e la sacralità del paesaggio …».
Rosario Ilardo
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139 G. SAMONA’, Relazione generale al Piano Regolatore Generale della città di Cefalù, 26 febbraio 1967, p. 4.
140 Verbale n. 6 del 25 febbraio 1987 della Commissione giudicatrice del Concorso nazionale per la redazione del Piano paesistico della Rocca di Cefalù, p. 6: «La Rocca di Cefalù costituisce un bene culturale che, come tale, va conservato nella sua integrità: la sua integrità stessa anzi dovrà costituire il primo elemento di valore perenne e, conseguentemente, di richiamo e di attrazione […]. Manomettendola in qualsiasi modo si rischierebbe di compromettere qualcuno, se non tutti gli aspetti menzionati [geologico, botanico, archeologico, storico, monumentale]; e non solo quelli oggi visibili e documentabili, ma anche quelli che possono essere ancora nascosti nel sottosuolo».
141 M. COLLURA, L’isola senza ponte , cit., p. 206.
142 P. CULOTTA, Alterazioni, in Una città da marciapiede, Regione e progettazione editrice – Cefalù, Palermo 1982, p. 10.
143 A. CULOTTA, Il paese di dentro. Tessere di un piccolo mosaico cefaludese, Reana del Rojale (UD) 2001, p. 6.
144 D. PORTERA, Cefalù vissuta con i pensieri dell’anima e il cuore assoluto, Marsala, Bagheria 2007, p. 17.
145 Quale sindaco del tempo, ho posto sul tappeto, per la prima volta in modo concreto ( deliberazione della Giunta municipale del 31 dicembre 1971), il tema del recupero e della fruizione della rocca di Cefalù, ritenendo prioritario il ricorso al metodo della programmazione tecnico-scientifica pluridisciplinare e interdisciplinare, per scongiurare il pericolo che squilibri e «alterazioni macroscopiche e sostanziali» potessero turbare l’integrità e l’unicità del complesso Città-Rocca. Al fine di qualificare tale percorso procedurale, ho ravvisato l’opportunità di coinvolgere il mondo accademico e, particolarmente, il Consiglio dell’Ordine degli Architetti di Palermo, cui affidare l’elaborazione di un bando di gara a carattere nazionale per la redazione del Piano paesistico particolareggiato della rocca.
146 Tra i membri della Commissione figurava l’archeologo Vincenzo Tusa. I lavori si conclusero con l’assegnazione del 2° premio al progetto degli architetti Pasquale Culotta e Giuseppe Leone, non ritenendo la Commissione di attribuire il 1° premio.
147 Verbale n. 6, cit., p. 7.
148 Un primo finanziamento di 500 milioni di lire, di cui alla l.r. n. 68/1980, fu utilizzato per il restauro della merlatura di nord-ovest a ridosso del centro abitato, cui se ne aggiunse un altro, a carico del bilancio comunale, di 54 milioni di lire per il completamento dell’opera sino ai “cinque pizzi”. Un terzo finanziamento di 1 miliardo e 200 milioni di lire, a carico dell’Assessorato regionale al turismo, fu impegnato per il restauro del muro di sbarramento a quota 130-135 m., dell’area dei forni, dei magazzini, della chiesa di S. Anna, nonché di una parte della cinta muraria esterna lato levante e di alcune casermette. L’ultimo intervento finanziario, ancora per 1 miliardo e 200 milioni, di cui alla l.r. n. 64/1986, fu destinato ai lavori di restauro in prossimità dell’ingresso (area della casermetta “A” ), ai lavori dell’area del castello, nonché a quelli relativi alla definizione della cinta muraria lato esterna lato levante. Esulano dal novero di tali finanziamenti, quelli, di tutt’altra natura, relativi alla bonifica, al consolidamento e alla stabilizzazione delle pareti della rocca.
149 R. ILARDO, Quale avvenire per la rocca di Cefalù?, in Atti del convegno “La Rocca di Cefalù: patrimonio dell’umanità”, SalvalarteSicilia, a cura di Legambiente Sicilia, Cefalù 31 maggio 2003, pp. 8-15. La soluzione ottimale per giungere alla costituzione del suddetto “organismo”, a cui demandare la gestione del Parco naturalistico-archeologico della Rocca (gestione giuridico-amministrativa, che si avvale di pareri tecnico-scientifici espressi da un comitato di esperti), sarebbe l’emanazione, da parte della Regione siciliana, di un apposito atto normativo che ne disciplini e regolamenti le competenze e il funzionamento. Qualora questa strada dovesse risultare impraticabile, si potrebbe ricorrere, a mio parere, alla costituzione, così come previsto dalla Statuto del Comune di Cefalù (art. 14, c.1, lett. F), di una Istituzione o di una Azienda speciale, il cui riferimento si rintraccia negli artt. 22 e 23 della l. 142/90, così come recepita dalla l. r. 48/91. Tale articolato, che disciplina in Sicilia i servizi pubblici locali e le relative modalità di gestione, ha subito, nel tempo, una serie considerevole di modifiche, integrazioni e rinvii, specie per quanto attiene ai servizi pubblici di rilevanza economica e imprenditoriale. Va precisato che la scelta di una delle due soluzioni porta a differenti risultati: mentre, infatti, l’Istituzione – organismo strumentale dell’Ente Locale – è dotato soltanto di autonomia gestionale, con funzionamento disciplinato dallo Statuto e dai regolamenti dell’Ente da cui dipende, l’Azienda speciale, invece, «è un ente strumentale dell’Ente locale dotato di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di proprio Statuto approvato dal Consiglio comunale». Le modifiche, inoltre, introdotte alla normativa in esame, quasi tutte a livello nazionale (solo per citare qualche esempio: art. 113 del d.lgs. n.267/2000, concernente l’approvazione del T.U. delle leggi sull’ Ordinamento amministrativo degli Enti locali in Sicilia; art. 35 della legge finanziaria per il 2002, n. 448/2001; art. 23/bis, c. 10, del d. l. 25 giugno 2008, n.112, convertito con modifiche dalla l. 6 giugno 2008, n. 133), sono applicabili in Sicilia in forza del rinvio dinamico introdotto in tale materia dal legislatore regionale, con l’art. 37 della l.r. n.7/92 e con l’art. 47 della successiva l. r. n. 26/93. Va, ancora, aggiunto che nuove e diversificate forme di disciplina dei servizi pubblici locali sono state introdotte dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, di cui al d.lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004, art.115. Ciò premesso, è di tutta evidenza che la gestione del bene culturale e paesaggistico “Rocca di Cefalù”, è materia assai delicata e complessa , dalle molteplici sfaccettature, che coinvolge più settori e campi di indagine, che si estende in più direzioni, che presuppone, per ciò stesso, conoscenze e competenze altamente qualificate e specialistiche. Di conseguenza – fermo restando il principio che l’Ente locale non dovrebbe mai abdicare al proprio ruolo di indirizzo e di controllo – ritengo che il comune di Cefalù, oggi, non sia più in grado, a motivo delle proprie anemiche strutture organizzative, di provvedere, con efficienza ed efficacia, alla gestione diretta del Parco della Rocca. E’ auspicabile, pertanto, che il Consiglio comunale si adoperi con tempestività, previa integrazione delle relative norme statutarie in materia, per giungere alla costituzione di un organismo qualificato capace di elaborare un “progetto unitario” (che presenti, cioè, elementi e caratteri di organicità) per il pieno recupero e la pubblica fruizione del Parco della Rocca.
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Commenti
Gianfranco D'Anna -
Grazie Dott. Ilardo
Ho scritto tante volte sulla gestione e valorizzazione del Parco della Rocca.
Nell'ultimo intervento, dalle pagine di questo blog, ho esposto il mio pensiero proprio sul progetto della cabinovia e, in generale, delle “ascese meccaniche” fino ad oggi prospettate: La cabinovia per salire sulla Rocca del 27 giugno 2013 (https://www.qualecefalu.it/node/2525).
Da allora solo silenzio…
Grazie Dott. Ilardo
Giuseppe Cassata -
Grande Amore per Cefalù!
POTER LEGGERE SCRITTI COME QUELLO SOPRA EVIDENZIATO E' UNA FORTUNA E MI FA SUPERARE LE AMAREZZE CHE SPESSO MI OPPRIMONO NEL LEGGERE SULLA DISAMMINSTRAZIONE DELLA CITTA' DI CEFALU'!
GRAZIE DR. ILARDO.