30 Giugno 2016, 12:00 - Angelo Sciortino [suoi interventi e commenti] |
Sul tema del federalismo e del rispetto delle autonomie noi Italiani abbiamo avuto grandi maestri, come Carlo Cattaneo, Minghetti e tanti altri ancora. Nonostante tali maestri, non siamo stati capaci di fare dell'Italia uno Stato meno accentratore di quello attuale, che con la distruzione delle libertà locali ha distrutto anche la forza politica dei cittadini, che nei Comuni trovavano la possibilità di allearsi per perseguire il bene comune.
Vero è che subito dopo l'Unità fu necessario fare della nuova Italia uno Stato accentratore, per resistere a quel nemico, che la combatteva dal suo interno: la Chiesa cattolica, che con il suo non expedit vietava ai credenti la partecipazione alla vita politica e spesso ne alimentava la disubbidienza. Tutto ebbe fine, quando lo Stato e la Chiesa divennero alleati con i Patti Lateranensi. Quali furono le conseguenze di questa alleanza lo sanno quei pochi ancora in vita, che delle guerre “benedette” del Duce subirono le conseguenze. Ancor più le conobbe l'Italia distrutta e impoverita dei suoi figli migliori, morti per “spezzare le reni alla Grecia” e per far tornare “sui Colli fatali di Roma il sole dell'Impero”.
Qualche speranza di riprendere il cammino di un federalismo l'abbiamo avuta nel primo Dopoguerra, ma l'abbiamo distrutta. Intimoriti dalle istanze indipendentiste della Sicilia, alcune forze politiche inserirono lo Statuto autonomista nella nostra Costituzione, per cui esso ha oggi il rango di legge costituzionale, che può essere mutata seguendo le modalità proprie della Costituzione. Allora si opposero Croce ed Einaudi, insieme ad altri, ma di fronte al potere dei numeri dei democristiani, dei socialisti e dei comunisti dovettero cedere. A ruota fu la volta della Sardegna e dell'Alto Adige, i cui Statuti nacquero dopo, e quindi nel rispetto della Costituzione.
Che cosa non andava di tale statuto siciliano? Semplicemente che esso non garantiva alla Sicilia autonomia politica e amministrativa, se essa fosse stata governata da uomini politici figli della politica partitica nazionale. Così i vari democristiani al governo della Regione non pensarono più all'autonomia della Sicilia, ma si piegarono agli interessi quasi sempre clientelari dei loro partiti.
La Sicilia finì con il diventare il parente povero dell'Italia, al quale non si dava libertà, ma gliene si toglieva. I Siciliani quasi in massa accettarono tale loro declassamento a parenti poveri. Oggi, nel momento in cui subiscono le conseguenze della crisi generale europea e rimasti per l'inavvedutezza del passato senza mezzi economici e finanziari per resistere, chiedono a gran voce l'indipendenza, non rendendosi conto che la loro realtà socio-economica non è quella inglese, per cui la loro indipendenza sarebbe la più grande iattura immaginabile.
Se oggi la Sicilia è tornata a essere la colonia romana governata da Verre, la colpa non è del Governo nazionale, ma di quelli regionali, l'ultimo dei quali ha creato le condizioni perché un'Isola ricca di storia e meta turistica mondiale, abbia perso ogni futuro.
Inutile insistere che questo non è federalismo; non è nemmeno autonomia. Anzi, la stessa Regione si è auto demolita e ha fatto e continua a fare leggi, che demoliscono la stessa autonomia comunale, in questo alleata con il Governo centrale, che lascia quella parte di autonomie, che gli permettono di esercitare il clientelismo: abolisce le province, crea i patti di stabilità per i Comuni, impone le sue regole per la sanità. A fronte di tutto ciò, lascia le costose e inutili Regioni, che soltanto in pochi casi hanno ragioni storiche ed economiche per esistere. Esse servono, però, per mantenere a caro prezzo e a spese dei contribuenti una pletora di politicanti e di burocrati.
Il recente referendum inglese in quest'ottica viene visto come un atto di coraggio del popolo inglese per rendersi indipendente da un'Europa accentratrice e burocratizzata. La si invidia e si giunge persino a invidiare il suo avere “palle”, dimenticando però che per cinquant'anni noi siamo stati incapaci di averle, almeno al momento delle elezioni. Abbiamo scelto, infatti, sempre uomini senza ideali, senza strategie politiche e incompetenti in ogni ramo dell'amministrazione. Farne i nomi non è difficile: sono tutti i presidenti e gli assessori degli ultimi cinquant'anni! Vero, non tutti potevamo conoscere i candidati, ma tutti potevano conoscere i candidati comunali, spesso loro manutengoli. Eppure li abbiamo votati e, traditi e ingannati, non li abbiamo criticati. Cefalù docet!
Su questo tema è interessante il pensiero di uno dei più autorevoli Consulenti Costituzionali del Commonwealth, il professore australiano Kenneth Clinton Wheare, che alla Convenzione Nazionale di Terranova del 1946 così definì il Governo Federale: "Un sistema di governo che incorpora prevalentemente una divisione dei poteri tra autorità generale (federale) e regionali (o statali), ognuna delle quali, nella sua propria sfera, è coordinata con le altre e indipendente da esse. Il risultato della distribuzione dei poteri è che nessuna autorità può esercitare lo stesso livello di potere che avrebbe in uno Stato unitario”.
Ecco, questa doveva essere l'Europa; questa doveva essere la Sicilia; questa doveva essere Cefalù. Invece...Invece l'Europa e la Sicilia sono finite in mano ai pigmei della burocrazia e della più becera delle politiche, perdendo ogni autonomia e, quindi, ogni diritto dei cittadini a essere artefici del loro futuro. Già la crescita esponenziale del cosiddetto precariato è una prova lampante di quanta poca autonomia abbiano i cittadini, ridotti a essere elemosinanti di chi gestisce il potere.
Come reazione a questo stato di cose nascono i populismi, ormai imperanti in tutta Europa come se essa fosse ridotta a essere l'America Latina. Un bel regresso, non c'è che dire!
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