“DISSERTAZIONE SULL’AMORE”

Ritratto di Giuseppe Maggiore

15 Maggio 2025, 10:51 - Giuseppe Maggiore   [suoi interventi e commenti]

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DISSERTAZIONE SULL’AMORE

(“... homines ipsi sibi somnia fingunt..” - gli uomini si creano da sé i sogni - Virgilio)

 

“Il trattare d’un tale argomento può spingerci ad incorrere in diversi perigli, fra i quali il più comune potrebbe rinvenirsi in quello di essere tacciati di mero quaccherismo o di ambiziosa criticabile retorica.

Ciò in quanto pensatori di ben più alto spessore che non il sottoscritto (ammesso che io possa entrare nel novero del pensatori) ne abbiano trattato a dismisura e con ben più alto respiro, esaurendo brillantemente l’argomento.

E poi, oggi, benché io mi reputi soltanto un convinto parvenu, mi risulterebbe poco onorevole per me stesso rinnegare di trattare una tematica di per sé affascinante per quanto complessa e indiscutibilmente scottante, già ambiziosamente e presuntuosamente da me incoata, per timore di giudizi puritani o di qualsiasi resilienza che possano sopravvenire da parte di taluni rinomati rachimburgi.

Ciò premesso, dopo fortuiti sondaggi, interviste, richieste di estemporanei pareri e quant’altro, esperiti fra conoscenti e non,  invocando i favori di Erato, musa emblematica della poesìa amorosa, a che ci conceda di poter dipanare onorevolmente l’argomento, caricati da indomita determinazione e da spartana alacrità ci si mette in pista, vada come vada, e fissiamo il nostro procedere a partire da una considerazione eminentemente cosmica, “ab imis”, tanto per intenderci.

Tentiamo di esplorare il pianeta “donna” focalizzandolo nella sua più pura rilevanza sentimentale.       

Naturalmente, è ovvio, prendendo le mosse  da un punto di vista squisitamente maschile.

Cos’è una donna o cosa può essere?

È, o può essere, un armonico concentrato sensoriale dalla cui esistenzialità non si può prescindere. La sua è una connotazione originale, molteplice, icastica, mirabolante, suggestiva: ella può assumere  la configurazione di una madre, di una sorella, di una moglie, di una figlia, di una compagna, di un'amante e chissà quant’altre definizioni potrei trovare ancora.

In poche parole: è una Dea! O che della Dea abbia le prerogative.

Inoltre, nella sua più ampia e comune accezione, è, o dovrebbe essere, un unicum perfetto che accorpi la prestanza della forma alla valenza dello spirito: una monade asettica, cioè, un’entità eclettica, eletta, sovrumana, una panacea emblematica che contrapponga il deliquio  alla consapevolezza e che sappia, con innato sapiente lungimirante criterio, gestire entrambi (in medio stat virtus) tali presupposti, pseudoaforistici imprescindibili, che affianchino, supportino e potenzino la concezione muliebre dell’alma mater coniugandola con l’afflato intrinseco della femminilità, intesa, quest’ultima, come elemento integrante della natura maschile.

E quando alle attrattive fisiche si aggiungano la mitezza dello sguardo, l’amorevolezza degli atteggiamenti, l'affabilità dei modi, la disponibilità del carattere, un timbro vocale amabile e sensuale ed una costante sensibilità, allora la donna diventa eterea, sempiterno connubio fra l’umano ed il divino allo stesso tempo; unico possibile e definitivo approdo per l’uomo.

Perché ci s'innamora? Mah! E chi lo sa? Vai a sceverare con matematica sintesi il vero elaborato processo, evolutivo ed involutivo, la metamorfosi, la catarsi e quant'altro, che subisce la nostra mente in tale esiziale contingenza!

Vai a sondare una materia senza limiti, inconoscibile, un pozzo senza fondo!

Stiamo trattando di un tema imponderabile!

Ci si può innamorare di uno sguardo, di un particolare modo d’incedere, di una postura, di una movenza flessuosa, di un sorriso, di una condivisione d'idee, di una forma, di un lieve fluttuare delle anche, di una gamba fasciata da una sottilissima lunga calza nera che fuoriesca lateralmente da una gonna, lunga o corta che sia, di un non so che di ancestrale, di atavico, di incerto che promana dalla figura intravista; d’un coacervo iperattivo di elementi, insomma, contrapposti (coincidentia oppositorum), quali, ad esempio: l’alba e il tramonto,  il giorno e la notte, la primavera e l’estate, il buono e il cattivo, la vita e la morte, il tutto ed il niente, l’insieme ed il singolo, ecc., fattori che tolgono l’imparzialità al pensiero, ottenebrandolo e rendendolo inerte e inefficace. Inceppando il suo naturale fluire.

Clinicamente, assumono i saggi (Freud, Fromm, Nietzsche), lo stato d’innamoramento è una condizione cerebrale patologica che coinvolge inesorabilmente tutti i nostri sensi.

Infatti, a corollario di quanto prima, quando il particolare affettivo incontenibile fermento psicologico dal cervello trasmigra al cuore ed alle ghiandole endocrine, allora irrimediabilmente scatta il sentimento, critico stato d'animo coattivo che fà perdere in modo imprevedibile la tranquillità dello spirito, il sonno, la perfetta lucidità, la cognizione del tempo che inesorabile scorre impudico e dello spazio che irreversibilmente ci sovrasta ed in cui, consapevolmente o no, ci troviamo immersi, indirizzando tutte le nostre facoltà vitali ad un comune denominatore, fragrante e irrazionale: il sogno, quale “specifico” liberatore di uno stato emotivo incontrollabile! (Freud).

Chaplin, alias Calvero nel suo mirabile film “Luci della Ribalta”, additando la propria fronte, dice ad una afflitta Terry (Claire Bloom), la sua comprimaria nel lavoro:  “... questo è il più bel regalo che la natura ci ha dato!...”

Il cervello, cioè.

È da lì, infatti, che scaturisce la fantasia, benefico balsamo che, unito alla rosea speranza, supporta l'animo umano nelle sue molteplici terrene vicissitudini, lenendo delusioni e tristezze, fornendo ineludibili incoraggiamenti e possibili agganci ad una teoretica virtù.

Ed allora, refugium peccatorum, l’uomo è portato a sognare ad occhi aperti una vogliosa “lei”; la si ipotizza, la si costruisce, la si crea; la si vorrebbe sempre vicino per ammirarla, stringerla fra le braccia, baciarla, carezzarla, aspirarne il profumo, viverla, goderla. Tutto il restante senso della vita perde il suo originario sapore, si affievolisce e scompare irrimediabilmente come in una impalpabile cinematografica chiusura in dissolvenza.

Così la donna diventa il nostro porto sicuro, la nostra panacea, il nostro rimedio salvifico, la nostra consolazione, la nostra sublimazione, il nostro piacere, il nostro tormento, il nostro traguardo, la esiziale pace alla nostra interiore irrequietezza: una umana divinità piena di delizie e di nequizie, croce e delizia del nostro travagliato cammino.

Pertanto, come s’è accennato prima, quando la sua reale fattiva presenza non accompagna il nostro incedere, facciamo di necessità virtù e col ricorso alla fantasia ce la raffiguriamo, ad usum delphini.

Ma come la si può immaginare se non nel modo più comunemente classico, più direttamente congeniale, dettato dal corrente erotismo soggettivo estrapolato dall'abusato breviario maschile?

E ciò, naturalmente, facendo inconsapevolmente anche ricorso alla suggestione d’un elaborato Kamasutra.

Così, infatti, ebbe a descrivermi la donna un amico, un caro amico, maschilista della più bell’acqua ma ricercatore incallito del senso della vita, che, come me, indulge in un interesse spasmodico verso l’arte cinematografica, assiduo estimatore del Boccaccio, letterato alla buona (ma più parvenu che letterato), in un suo felice momento di ispirazione dionisiaca:

“viso ovale. Occhi a mandorla, verdi, bistrati. Sguardo accattivante, malizioso, coinvolgente. Motile la bocca, modellata per i baci; pronunciate le labbra, invitanti, succose, truccate d'un rosso carico. Sciolti i capelli, fluenti sulle spalle nude, di colore scuro o biondo che siano. Seno tornito, prorompente, svettante; fianchi nutriti, flessuosi, invitanti.  

Due orecchini pendenti, alla gitana, le ornino i lobi delle orecchie. Un sottile nastro di velluto blu, al quale sia appeso un medaglione, le circondi il collo. Inguainata in una veste di tessuto elasticizzato nero o grigio, corta, merlettata agli orli, e che, sostenendoli, le copra appena e lasci quasi scoperti i seni. Gambe tornite ed interamente fasciate dal nylon delle calze scure (come si accennava prima), lunghe, autoreggenti. Nere o chiare le scarpe, semiaperte, trattenute sul dorso da una linguetta di pelle e a spillo i tacchi. L’espressione appaia ostentatamente pudica, leggermente velata da un candore sognante“.

Victor Hugò asseriva che la donna nuda è donna armata; Balzac propendeva, invece, per la donna discinta, in quanto più conturbante. Lautrec e Seurat, sfegatati pittori feticisti, nei loro quadri la drappeggiarono con frange e merletti.

C’è tutta una letteratura che ne esalta la figura (Catullo, Ciullo d’Alcamo, Cecco Angiolieri, Petrarca insegnano!). Ognuno, insomma, l'ha vista, ritenuta e descritta a suo modo, secondo la propria indole, la propria capacità immaginativa ed il proprio grado di gusto e d’interesse.

Angelo e demonio, madonna e circe, Maddalena e Betsabea, Laura e Beatrice. Venere! Creata per la perdizione dell'uomo, come con esasperato nichilismo sancisce Alessandro Dumas (padre), ma era un disfattista.

E poi, il carattere! Un carattere atipico, ma non discostante.

Eppure: capricciosa, stravagante, volubile, originale, stizzosa, ghiribizzosa, smorfiosa, permalosa, incostante, erinnica, introversa, puntigliosa, vendicativa, apatica; ma anche e soprattutto: dolce, amabile, erotica, sensuale, incantevole, amorevole, disponibile, sincera, materna, estroversa, affidabile, affettuosa, sensibile, comprensiva, conciliante!

Valla a trovare una così: etera e dea!

Innamorarsi di una simile ipotetica creatura è facile, difficile è distaccarsene. È  impossibile non rimanerne toccati per l’avvenenza, per la grazia, per la sua spontanea attrattiva; capziose uniche doti che la spingono verso una irreversibile schiacciante vittoria.

Lei, bella e formosa, venatrix hominum, venatrix regum, quale irrequieta gazzella nel periodo degli amori irretisce ed eccita, attrae e sconvolge, prostra e innalza, trafigge e rincuora; ispira grandissima voglia di annullarsi nel bacio, di immergersi nell'abbraccio, di affogare nell’effluvio che promana dai suoi seni, mentre morbida e invitante, intrigante e pregna di malizia, con sguardo civettuolo, ammantata dal suo prezioso carisma ti sconvolge e, seppure inconsapevolmente, ti incita all’amplesso.

Le passioni sono improvvise, come i tornadi; non si può prevederle, né rifiutarle, né regolarle, né governarle; è solo la maturità che può moderarle, purché riesca ad arginarne il crescente subbuglio emotivo. Ma esse, all’ottanta per cento, rimangono confinate nel pensiero.

Non ci si può coricare la sera senza pensarla, non ci si può svegliare la notte senza che la sua immagine non rimbalzi nei nostri ricordi, non ci si può alzare al mattino senza ammirarla con gli occhi  della mente,  del cuore e dei sensi.

Il suo essere diventa un’ossessione nella misura in cui ci si conceda o ci si mostri irraggiungibile.

È un paradosso, si; ma è così.

Fissarla nella memoria è come per un assetato vedere una fontana d’acqua pura al di là di un non sorpassabile ostacolo e non potervi accedere per dissetarsi.

Il supplizio di Tantalo!

Desiderarla e non arrivare al dunque genera una malinconia indicibile, una acerrima prostrazione, una pena senza fine determinata dall’esultazione dei sensi.

Inesauribile e senza termine sarebbe scrivere un romanzo su di lei, sui suoi molteplici modi di essere, di porsi, di manifestarsi, di apparire.

La passione è infinita perché lei è l’infinito cosmico racchiuso in un friabile elegiaco involucro.

Come si fà a resistere alla sempiterna impellente voglia di lei?!

Cos'è, dunque, l’amore se non il desiderio sessuale camuffato da poesia?

Jules De Gaultier, nel suo testo “Il bovarismo”, parla del Genio della Specie, della presa in giro che la natura ordisce ai danni dell'uomo, camuffando  il desiderio (unico prodromo che genera la vita) col sentimento, al fine della perpetuazione dell'umano terrestre travaglio, condito dalla religione e sorretto dalla speranza.”

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Quanto sopra è frutto della verve di un mio carissimo amico dimorante in Atene, Tumilio Piangilocchio, scrittore alla buona, senza pretese

Un giorno, venuto in vacanza a Cefalù, ebbe ad incontrarmi e, versando in condizioni di salute alquanto precarie e volendomi gratificare d’un suo scritto non pubblicato volle lasciarmelo ad imperaturo ricordo della nostra vecchia amicizia.

Oggi che non è più, memore del sodalizio che ci ha legato per tanti anni e per onorare il suo ricordo, intendo licenziarlo alle stampe per far rivivere il suo ricordo ed il suo spigliato modo di pensare…

                                                                                         Giuseppe Maggiore