La Putta

Ritratto di Giuseppe Maggiore

20 Maggio 2014, 20:36 - Giuseppe Maggiore   [suoi interventi e commenti]

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"LA PUTTA"
("In girum imus nocte et consumimur igni")

di Giuseppe Maggiore

 

Questa è la memoria storica di un fatto avvenuto qualche tempo fa (diciamo pure circa tre secoli fa, tanto per esser precisi), desunto da polverosi incartamenti ingialliti, inceneriti dagli anni e dall'umidità, nonché costellati da miriadi di escrementi d'insetti che ne aumentano la vetustà.

Accadde proprio a Cefalù, nella Via San Filippo e Giacomo (oggi Via Nicola Botta), in prossimità della casa attualmente contrassegnata dal numero civico 46, a quel tempo contigua alla chiesa dei nominati Santi dai quali la via aveva preso il nome.

Volgeva l'anno del Signore 1757, infatti, quando un Angelo Maggiore (cugino in primo grado di quegli che aveva acquistato a Lipari la statua dell'Ecce Homo), pure lui esperto nell'arte della mercatura, contrasse sponsali con tale Anna Di Fatta.

Questo è ciò che recita il contratto di matrimonio redatto in quell'anno dal Notar Emanuele Napolitano.

Nel documento vengono analiticamente annoverati i beni materiali, mobili ed immobili, che formano oggetto della dote di entrambi gli sposi e che qui non è il caso di riportare perché esuleremmo dalla vicenda che ci occupa.

I coniugi in discorso, adunque, ebbero ben sette figli, quattro maschi e tre femmine, in un lasso di tempo relativamente breve, se si vuole; ma la nidiata, comunque, rispettava la prassi di quel secolo in cui ci si sposava giovanissimi e i figli venivano a grappolo, uno dopo l'altro.

E si può affermare che, praticamente, vissero d'amore e d'accordo se non fosse intervenuta una piccola (o grossa che sia, secondo i pareri) pecca a carico del nostro Angelo, pecca della quale Anna, però, non venne mai a conoscenza diretta e completa, non avendo mai fondamentalmente credute vere le confidenze, anche giurate, di quelle molte anime candide, che, cortilescamente, non avevano mancato di metterla a giorno della malfamata diceria.

Pare, infatti che l'Angelo in discorso, bell'uomo, alto di statura, in carne e quant'altro (secondo quanto ci è dato di intuire dai documenti), avesse disavvedutamente ingravidato Teresa, la giovane fantesca che aiutava la di lui moglie nel quotidiano disbrigo delle domestiche incombenze.

Il fatto si dipanò così. Pare (sempre "pare"; perché come si fà a ratificare notizie lacunose, frammentariamente riportate in un latino curialesco e in volgare, con una grafìa svolazzante e piena di abbreviazioni giuridiche di difficile comprensione, sicuramente stilate da un amanuense bogomilo, estrapolate da frammentarie vetuste missive e da macilenti secolari documenti rosi, come accennavo prima, dall'umidità e dai tarli e alterati da macchie d'inchiostro e, per giunta, contornati da ghirigori di linee nere svolazzanti, puntiformi, costituiti da multiformi escrementi di mosche e d'altri insetti?),  pare, quindi, che questa Teresa o Teresina, come vezzeggevolmente veniva chiamata in famiglia, fosse una ragazza belloccia di appena vent'anni, formosetta e gradevole nel carattere quantunque piccolina di statura.

Aveva dei bellissimi occhi verdi e roseo il colorito della pelle; di bassa estrazione, si, ma con un seno turgido, florido e prosperoso, "deliciae deliciarum" , che molte duchesse le avrebbero sicuramente invidiato. In più, portava le lunghe trecce castane incrociate sulla nuca, seguendo una abitudine muliebre inveterata che allora la faceva da padrona.   

Ora, un bel giorno (e teniamo presente che ormai Angelo versava oltre la quarantina e i suoi figli, già maggiorenni, erano tutti bell'e sistemati, chi in un buon matrimonio, chi nel lavoro e chi aveva addirittura preso gli ordini religiosi) in cui la moglie Anna era andata ad assistere la propria zia che versava in cattive condizioni di salute in un suo predio all'altro capo del paese e il nostro Angelo era rimasto solo in casa a chiudere dei conti relativi al suo commercio, pare che la detta Teresina, col suo fare accattivante e lezioso, gli avesse chiesto se per caso lui abbisognasse di qualcosa, avendo lei finito di rigovernare, di spolverare e di spazzare, perché era sul punto di andarsene a casa dal fratello col quale di fatto abitava da quando le erano venuti a mancare i genitori.

Bisogna a questo punto non sottacere che questa Teresina non era affatto nubile o "mulier virgo" , come si diceva allora, bensì maritata era stata a tale Alfio Spinnato, di professione carrettiere; ma che, poi, a causa dei frequenti litigi per l'estrema gelosia del marito (che, fra l'altro, quand'era preso dal furore, rinvigorito da qualche capace bicchiere di vino di troppo, gliele dava di santa ragione con una mezza spada, esponendo il proprio desco al ludibrio dei cortileschi vicini), i suoi genitori, a quel tempo ancora in respiro, con un esposto al capitano di giustizia, figura che a quel tempo incarnava la legge, gliela avevano tolta aggrappandosi all'istituto della ripulsa, felice antesignano dell'odierno divorzio.

Il nostro Angelo, adunque, che buontempone era e che, per quanto fedele alla propria moglie pur tuttavia non era sordo ai richiami della foresta quando se ne fosse presentata l'occasione in modo più che palese e il tirarsi indietro in tali circostanze gli avrebbe tributato, secondo la più effimera convinzione sia antica che corrente, la qualifica di fesso, l'Angelo, dicevo, che proprio in siffatta evenienza angelo non si dimostrò, ma, forse, più pertinentemente diavolo, s'era fatto abbindolare dall'avvenenza della fantesca più che da una sua specifica intenzione di sedurla e, come un odierno kamikaze, si era buttato a pesce su quel prelibato frutto della natura gustandone i più saporiti aromi.

Ora che la "sventurata rispose" (tanto per parafrasare il Manzoni, di felice memoria), l'intreccio non si fermò lì. Non fu, in sostanza, una occasionale scivolata di piede del mio apprezzato antenato, una semplice "toccata e fuga", insomma, come suol dirsi; sia perché l'oggetto del suo piacere lui l'aveva sempre sotto gli occhi (e questa è una poderosa "spada di Damocle" da non sottovalutare!), sia perché la ragazza par nutrisse verso di lui un sentimentuccio che andava al di là della semplice attrazione fisica (ricordiamoci che Angelo era un bell'uomo, suppergiù come me!), sia anche perché, infine, egli, che aveva già superato "la metà del cammin di nostra vita" (per dirla con Dante) si sentiva rivivere nell'intimo delle sue più riposte fibre nel rapporto con la detta fantesca, al contatto con quella gioventù che per lui era ormai un lontano ma non obliato ricordo.

Il Nostro, infatti, non aveva mai tradito la moglie (almeno, così si suppone; né, d'altronde, io ero là a seguire i suoi passi e ad esser testimonio del suo operato, tanto da poter fornire, oggi, una notizia certa; né, tantomeno, alcuno scritto, che io sappia, mi documenta in proposito).

Il fatto si è che la tresca andò tanto avanti sott'acqua sino a che un bel giorno la Teresa o Teresina che si chiamasse si accorse, ahimé, con estrema sua preoccupazione e grave disappunto, di essere imprevedibilmente rimasta gravida. "Tanto va la gatta al lardo che vi lascia lo zampino", come recita un noto adagio.

E proprio questo era capitato alla nostra onesta (?) fantesca.

E, a quel tempo, cari amici, non sovveniva l'ausilio del profilattico, né per preservarsi dalle possibili inerenti malattie veneree che allora imperversavano incontrastate, né per prevenire fastidiose gravidanze indesiderate; e neanche gli illustri clinici  Ogino e Knaus erano ancora nati. C'era da affidarsi al caso e sperare nella buona sorte; purtroppo, però, i frutti della passione soddisfatta si sfornavano con cadenza giornaliera e, spesso, la famosa "ruota" dei monasteri non faceva altro che continuamente girare.

Fra l'altro, proprio in quei giorni  la Teresina aveva appreso di essere rimasta vedova perché il suo ex marito era scivolato con tutto il carretto dentro un burrone lasciandoci le penne; quindi anche la possibilità di riappacificarsi con lui e di rabbonirlo con un consistente donativo facendogli accettare il neonato era del tutto inesistente.

Né tampoco si poteva lasciar credere alla gente curiosa che i due recentemente, prima dell'incidente, si fossero riavvicinati riallacciando il proprio rapporto, perché dopo la separazione Alfio si era definitivamente trasferito a Pettineo, sua patria d'origine, e non aveva più fatto ritorno a Cefalù per alcun motivo.   

Così Angelo, quando fu messo a giorno dell'inghippo, cominciò subito a disperarsi e a riflettere. Temette, in primo luogo, che il suo tranquillo menage familiare potesse venire irrimediabilmente compromesso, con tutti i risvolti negativi che un caso del genere potesse apportargli; temette l'immancabile esiziale dileggio della voce pubblica che lo avrebbe moralmente lapidato e temette anche, non ultimo, che il florido commercio condotto, pertanto, ne avesse in qualche modo a risentire.

Ma, uomo di gran momento, dotato di un ferreo carattere ragionatore, dobbiam dire che non si perse eccessivamente d'animo. Riconobbe in cuor suo l'entità del fallo commesso e s'industriò di porvi rimedio come meglio poteva.

L'urgenza, nel frangente, perché la possibilità di un aborto era soluzione per la sua indole da non pensarci nemmeno e da scartare immediatamente a priori, era quella di trovare subito un marito alla Teresina, cercando, tuttavia, di non far sapere niente ad Anna, sua moglie; un marito, però, al quale palesare tutto in prima istanza onde evitare una successiva ripulsa, tappandogli, poi, la bocca con una vistosa donazione.

E qui stava il bello! Come fare? Chi prendere? Di chi fidarsi?

Gira e rigira, risolse di chiedere consiglio a Padre Eustorgio, il Ciantro della vicina chiesa di San Nicola, uomo pio di vasta dottrina e di grande umanità, che non era nuovo a tali accomodamenti in tempi in cui, come sopra detto, vigeva l'istituto benefico della "ruota", dove venivano abbandonati alla cristiana carità i neonati, frutti illeciti di amori clandestini.

Così, fatta di necessità virtù,  un bel giorno Angelo, dopo continui ripensamenti, titubanze ed indecisioni, lo andò a trovare nella canonica e sotto il vincolo della confessione gli espose il fatto in tutti i suoi minimi particolari.

Il sant'uomo lo lasciò parlare, lo ascoltò con paterna partecipazione e alla fine, pur commentando aspramente il comportamento del postulante, emise la sua soluzione: Berto Calandra, brav'uomo, lavoratore, forse un pò in là con gli anni e non molto attraente, si, ma che avrebbe sposato la Teresina, così com'era, pur che la si fosse adeguatamente dotata.

La felice subitanea soluzione del caso trovava la sua ragion d'essere nel fatto che proprio pochi giorni prima lo stesso Calandra si era rivolto al benefico prelato pregandolo di aiutarlo a trovargli una moglie, essendo lui  rimasto vedovo da più di un lustro e non riuscendo a convincere alcun'altra donna ad accasarsi con lui.

La richiesta di Angelo, pertanto, era senza dubbio capitata proprio a fagiolo.

Padre Eustorgio s'incaricò di tutto ed Angelo se ne tornò a casa, quella sera, sollevato dall'incubo che gli aveva attanagliato il cuore da alcuni lunghi giorni e poté guardare la moglie con sguardo più sereno e con la convinzione che il pericolo di veder infranta la propria amistà coniugale era bell'e passato.

Però il pensiero di dover lasciare la Teresina nelle mani di quel bifolco e di dover rinunciare alle carezzevoli grazie della fanciulla, be, questo lo frastornava alquanto; sicuramente più di quello di dover mettere segretamente mano alla borsa e scucire parte della sua consistenza per dotare la ragazza.

Comunque, al momento, la cosa importante era di dare un padre al nascituro e, naturalmente, di salvare la morale soffocando in sul nascere ogni possibile maldicenza.

Certo, il Calandra, conosciuta la giovane età della futura sposa, aveva espresso pure qualche legittimo dubbio sul negozio a farsi; tuttavia il Padre Eustorgio aveva saputo così bene impostare l'affare che alla fine il bifolco si dichiarò contento anche lui e, acclarata la consistenza della dote, non avanzò più obiezioni.

E la cosa, quindi, andò ad effetto talmente a modo che tra i posteri, oggi, trecento anni dopo, solo io ne sono venuto a conoscenza; e, adesso, anche Voi.

 

Cefalù, Maggio 2014                                                                                                                                                            Giuseppe Maggiore