Risvegli culturali (n. 1)

Ritratto di Giuseppe Maggiore

16 Giugno 2019, 13:57 - Giuseppe Maggiore   [suoi interventi e commenti]

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RISVEGLI  CULTURALI  (n. 1)

Prof. Villa & Antonello da Messina
(parliamo di questi e d’altro)

 

Io comincerei subito dall’“altro” di cui in premessa, se non vi dispiace, non tanto per diluire l’atteso serale intervento dell’illuminato Prof. Villa su Antonello da Messina, quanto perché, com’è risaputo, “... gli ultimi saranno i primi...”.

In tal modo le annotazioni sulla felicemente andata in porto conferenza del Medesimo, avuta luogo nel pomeriggio dello scorso 8 Giugno nella Sala delle Capriate di questo glorioso Comune, promossa sotto l’egida dello stesso e su iniziativa della Fondazione Culturale Mandralisca, acquisirebbero un'importanza di gran lunga più rilevante (atteso il superiore aforisma, almeno spero) di quella che potrebbero avere dissertandone subito.

Non è così? Eh?

L’attesa acuisce il desiderio, lo corporizza e lo eleva a concetto metafisico, subliminalizzandolo.

Prolungare un’attesa, quindi, è utile, proficuo e niente affatto dannoso; anzi, ne trae pure vantaggio la valenza del costrutto.

Non vi pare?

D’altronde, bisogna pur convenirne: le persone e le cose importanti si presentano all’ultimo.

Al dunque, allora!

Ben vengano simposi, incontri culturali, conferenze, tavole rotonde, dibattiti e quant’altro del genere, se non altro per contrastare la tetraggine che in ognuno genera la struttura del sociale, così com’è conformata oggi, con le sue molteplici normative, con le sue capillari sfumature obbligative e con la sua invasiva, certosina, assillante dimensione burocratica imperante.

Quest'ultima, la certosina dittatura burocratica che ci sovrasta, quasi inflessibile regola come quella, durissima, che in un nebuloso remoto passato veniva osservata dalla comunità delle bernardine-benedettine facente capo alla maniacale intransigenza di un Martin Verga (che non era per niente avo del nostro conterraneo illustre scrittore Giovanni), è l'inveterato cancro che scoraggia, fiacca e spesso fà abortire in sul nascere ogni lungimirante iniziativa privata.

Se non altro la inficia.

A questo, tuttora, oscuro male ancora resiste soltanto la possibilità del pensiero di librarsi sulle flessibili ali della fantasìa, estremo baluardo di una umanità che va irreversibilmente e senza accorgersene mutando i propri costumi lasciandosi vilmente trascinare dalla propria volubilità in un tenebroso limaccioso Stige che scorre silente ed infido nel pantano del mimetismo senza far presentire speranza alcuna di  riscatto o di possibile salvezza.

No, non sono un novello Savonarola venuto fuori dalle quinte di plurime correnti di pensiero che fiaccano od innovano le nostre tartassate coscienze; non sono affatto un riformatore né voglio atteggiarmi ad esserlo, non è nelle mie corde, ma un semplice osservatore coatto dalle assillanti pubbliche direttive che regolano il nostro incerto progredire sociale.

Ben vengano, adunque, tutti quei sommovimenti culturali di cui sopra, per distrarci, appunto, dalle frequenti incursioni che, grazie alla citata tarma di estrazione curialesca, la burocrazia, l’amministrazione pubblica fà nel nostro privato.

Miserevole cosa, infatti, è la libertà sociale del cittadino.

Costui, tralasciando ciò che la teorìa gli dispensa ed al lume della inesorabile pratica, non ha poteri, la discrezionalità gli è negata, non ha possibilità, sua sponte, di realizzare i propri progetti, i propri sogni, non ha l’agio di poter far qualcosa liberamente seppure nella più conclamata onestà intellettuale. Deve sempre appellarsi, per poter agire sui propri beni, ove ne possieda, alla intransigente permissività di presidi terzi (una terzietà avvilente); chinare il capo sotto il giogo dei doveri che promanano dai dettami della norma, dalla responsabilità del comune convivere condizionata dalle assillanti  sue innumerevoli restrizioni.

Ciò è senz’altro giusto alla luce inossidabile dei concetti che recitano che “... la mia libertà finisce dove comincia quella degli altri...” e che "le regole doverosamente rappresentano il supporto inderogabile di ogni vivere civile".

Ma qui il diritto, la legge, il codice, le consuetudini, il punto di vista, l’ottica e quant’altri, cercando la strada migliore per assicurare a tutti con giusta equità il sereno godimento di quelle prerogative che debbono porsi a base di ogni avveduto umano consorzio, tentando, in buona sostanza e lodevolmente, direi, di emanare norme più che giuste che esaltino e non prostrino l’individuo, finiscono inesorabilmente con l’ottenere l’effetto contrario: risultati che, tutto sommato, si discostano dall’appagamento di certe legittime personali esigenze, vessando e privando tutti di quella libertà di cui ognuno dovrebbe potersi avvalere in una filosofica concezione cosmica libertaria che sottintende la gestione del proprio senza dover chiedere permessi a chicchessia.

C'è da chiedersi: chi emana le norme? Pochi, seppure da noi portati al dunque. E i molti, volenti o nolenti, debbono necessariamente chinare il capo ed obbedire, anche se dissenzienti. Non sarebbe più equanime, forse, che i Pochi proponessero e che all'intero popolo, con un apposito plebiscito, fosse demandato di sancire quello che gli è più conveniente o meno?

Lo so. Sono e rimangono, queste mie, considerazioni a vuoto, a cera persa (come direbbe qualche ispirato scultore che s’indigna per il presunto pressapochismo delle opere altrui che lui senza pietà definisce ciarpame), utopìe, fantascienza, semplici puerili fantasìe da educandato giovanile. Da che mondo è mondo non è mai stato adottato un tal sistema; ed io rimango l'ingenuo lungimirante di sempre propenso ad inneggiare ad una ipotetica platonica repubblica (ma chi mai potrebbe esserne il Socrate?) od a quella del quasi contemporaneo Vittorio, al secolo Alfieri. Ahimè!

Si ha un bel dire. “Il popolo sovrano!”; ma che sovrano e sovrano! La denominazione appare puramente un ipocrita eufemismo.

Ed inoltre: attese le disposizioni in essere, ove si voglia realizzare qualcosa, (di lecito, naturalmente) è proprio necessario appesantirle, queste benedette norme, sballottati da un ufficio all'altro, con un iter cartaceo di richieste più o meno asseverate in ossequio alla sempiterna burocrazia che “... rende difficili le cose facili attraverso l’assurdo e l’inutile...” come recita un vecchio adagio popolare indubbiamente germinato dalla comune incontenuta esasperazione?

Cosicché (a mò d'esempio e mantenendomi esclusivamente sull’immobiliare, che mi sembra il campo dove il dente duole di più e dove l’abusivismo - tante volte di necessità - dilaga più che in altri campi) ne viene che se il cittadino possiede un terreno sul quale, pur essendo esso improduttivo, paga regolarmente le tasse e vuole costruirvi sopra, non può farlo se non chiedendo duemila permessi con relativo dispendio di denaro, di tempo e d’energìa; e ciò sempreché il dato immobile preveda la costruibilità o non sia già stato cubalmente utilizzato per l’intera sua superficie edificabile consentita.

Già i distinguo fra terreno e terreno, agricolo o non agricolo, di edificabilità e di cubatura, non son forse limitazioni della libertà individuale a poter disporre del proprio, che si è ottenuto o pagando la successione o l’acquisto?

Ed ancora: se nella propria campagna il nostro sparuto civis vuole tagliare un albero che dà fastidio alla sua proprietà deve guardarsi bene dal farlo se non avrà preventivamente richiesto la prescritta autorizzazione al competente Corpo Forestale e non l’avrà ottenuta.

Se deve riattare una sua casa che sta crollando, o aggiungervi una finestra, o rifare un intonaco, esterno od interno, o, per comodità sua, alzare un mediante interno, o chiudere una terrazza, o spostare la cucina in diverso vano e quant’altro: tremila permessi non bastano, con esborsi non indifferenti.

E poi, scusatemi, cosa può importare alla pubblica amministrazione se io sposto la cucina nella stanza da letto e quest’ultima al posto della cucina? Non sono forse ed esclusivamente affari miei? Che c’entrano i permessi da richiedere financo alla Soprintendenza?”

Così una volta mi rispose un uomo del popolo sovrano al quale io avevo espresso il problema.

E, infine (e qui vado a toccare un altro tasto, quello del controllo del territorio) se la moltitudine dei suidi minaccia e rovina la coltivazione tanto faticosamente curata, stando alle attuali disposizioni non si può far altro che indurre i rapaci animali, con buone parole e remissive maniere, ad andarsene perché, essendo loro razza protetta (così come le vipere che anzi vengono a bella posta incrementate “per ristabilire l'ecosistema”, sic) non li si possono abbattere; atteso, poi, che vi sia qualcuno capace d’animo di farlo, perché, in fondo, sono esseri viventi anch’essi.

A questo punto (digressione su digressione dal tema principale della saputa conferenza, e l’Antonello ed il Villa mi comprendano e mi abbiano per iscusato) qualcuno più avveduto di me potrebbe obiettarmi: “ ma, scusa, tu, allora, non la mangi la carne che sai perfettamente che proviene da un animale che vive e vegeta come te?

Rispondo ipocritamente: “Si, la mangio, se la trovo nel piatto; ma non sarei mai capace di andarmela a procurare, da me, andando a caccia!”

Personalmente sono contro la caccia, contro i macelli, contro gli allevamenti lager (anticamera della morte di poveri innocenti animali che, fortunatamente, non hanno coscienza del loro tristo destino) e quant’altro. Si pensi che una volta mi piaceva andare a pesca con la canna; ma da quando ho fatto mente locale che io mi diverto a prendere il pesce ma che quello soffre, ho eliminato questa occupazione.

Né parliamo delle corride in Spagna che dànno contezza di un medievalismo esasperato rimasto ancora allo stato brado in una nazione seppure civilissima.

Retaggi di un trascorso avvilente retrogrado passato.

D’altronde il passato è sempre stato cruento: basti, nel nostro caso, considerare tutte le nequizie che si sono perpetrate nel nome di Dio durante il periodo dell’inquisizione ad opera del Sant’Uffizio, per esempio.

Questo per fornire di me qualche notizia puramente soggettiva. Ma, tornando a quanto prima:

insomma, come un bambino che tenta i primi passi, egli, il cittadino, è condizionato dall'avvilente predominio delle multiformi disposizioni che regolano i vari settori supportate dalla immanente  burocrazia; gramigna, quest’ultima, che, naturalmente, promana dalla strenua riflessione di menti illuminate.

Ma è legittimo che menti illuminate possano mai, con gli emessi dettami, totalmente condizionare la libertà di quanti intendano agire sul proprio pur senza infastidire l'altrui?

Io sono un convinto assertore che le leggi emanate vadano scrupolosamente tenute in buon conto e scrupolosamente osservate (dura lex sed lex!) e che coloro che sono preposti a farle rispettare debbano godere del massimo universale apprezzamento e della massima benevola considerazione.

Ma chi le leggi le fà, dovrebbe preventivamente, con scienza e coscienza, esperire uno scrupoloso attento esame per cercare di antivedere quale impatto esse possano avere sui destinatari delle medesime al fine di non soffocare la libertà di chi dovrà osservarle, evitando a questi ultimi il giogo di una insostenibile pressione.

Per traslazione, poi: si pensi a quanti posti di lavoro si otterrebbero se venisse liberalizzata l'edilizia, per esempio; e si pensi, anche, a come si evolverebbe il nostro pil se, come tante volte promesso e mai mantenuto, si abbassasse la pressione fiscale.

L’Italia gode il primato nell'emanare leggi su leggi; ed in questo ginepraio di imposizioni, di norme, di balzelli e di sanzioni chi viene soffocato è proprio il più debole, il cittadino, il civis, che, in pratica, vede annullato il suo diritto di poter decidere sulle proprie cose dalla preponderanza dei doveri che sulle stesse gravano.

Il che mi fà inevitabilmente venire in mente quell'esaustiva poesìa del Giusti che comincia: “... A noi  larve d’Italia, mummie dalla matrice, è becchino la balia, anzi la levatrice...”

E poi, un’ennesima considerazione, giusta o sbagliata che sia, se me la consentite: tutti i governi ed i loro derivati a livello locale che salgono sul podio sono, o prima o poi, invariabilmente contestati da tutte le altre correnti politiche. E questo perché? Forse perché i contestatori abbiano in mano la ricetta salvatrice della situazione o perché vogliano scalzare gli insediati per occuparne, a loro volta, il posto?

La “stanza dei bottoni” è di grande richiamo: è la marmellata su cui si alternano le mosche.

In questo bailamme costrittivo ben vengano allora, ripeto e per la terza volta, delle manifestazioni culturali, come l’attuale, che allontanino la mente dai problemi specifici che insorgono al pensiero di quanto si è detto prima, tartassando la libertà ed abbacchiando lo spirito dell'individuo che soccombe irrimediabilmente ad una realtà sociale severa ed ostile.

Ora, a che, questo particolare imprevisto ed impremeditato sermone, quasi un preambolo, un anatema, un proemio, un grido di dolore buttato al vento? Cosa c'entra tutto questo inusitato  incipit con quanto verrà detto appresso?

Non c’entra per niente, carissimi amici e pregiate dame sul cui profumo mi annullo; le due parti, proemio-ouverture e cronaca-recensione non si collegano affatto fra loro. Sono anzi in completa antitesi. L’una esclude l'altra. Pertanto si può senz'altro considerare fuori tema l’esplicitato precedente assunto.

Tuttavia è uno sfogo (e tale rimane!) che, una volta tanto, si può anche fare per cercare di riprendere fiato sociale in un'atmosfera asfittica che tende ad annullarlo.

E lo sfogo può esternarsi in qualsiasi momento; ma per dargli maggior rilievo, corpo, spirito, veste, titolo, credito e più visibilità ed onde evitare che passi inosservato o che non gli venga tributato quel giusto riconoscimento che potrebbe meritare, è meglio aggregarlo, accorparlo, unirlo, fisicizzarlo, come sto facendo adesso, ad un evento culturale di rilevante importanza, come l’attuale conferenza, che lo traini al seguito della propria superlativa facies; o, come in questo specifico caso, che lo preceda qual fosse araldo di un tutto più preminente che, venendo dopo, alla luce del già espresso concetto “gli ultimi saranno i primi”, acquisti una ancora maggiore importanza di quella che potrebbe avere.

In tale ottica, è opinabile che venga letto con più interesse, attratti dal personaggio di una acculturata conferenza, più che lasciato solo a sostenersi con le sole sue inani forze.

Semel in anno licet insanire. Il servile buonismo della condiscendenza e dell’obbedienza ogni tanto dev’essere pur messo in discussione, seppure idealmente, anche perché subire costantemente e remissivamente senza nemmeno fiatare è altamente nocivo alla salute.

In una economia esistenziale in cui non si è più abituati a “vivere”, come una volta si viveva, ma a “mostrarsi” soltanto, per acquisire visibilità, notorietà, importanza e quant'altro, in cui tutti si mira al potere, ribalta da cui si può imporre il proprio peso (l’“essere” non c'entra più, è fagocitato dall’“apparire”), come mai si può sperare che le cose vadano per il meglio se non ci si ridimensiona con una generale opportuna catarsi?

Ed allora, quale speranza formulare per l’avvenire per chiudere queste mie, forse, risibili considerazioni superiormente espresse?  

Meno carte e più libertà!

In una parola: meno burocrazia e più “sovranità“ del popolo.

E qui, esaurito l’“altro”, così presentato prima, ritorno al tema della conferenza ed al suo relatore.

Premetto, intanto, che giunto sul luogo dell’incontro alle 17,40, in parziale ritardo all’orario stabilito che poi mi risultò essere le 17,30, ritardo determinatomi dal fatto  che da nessuna parte mi era stato precisato l’orario d’inizio della conferenza (si parlava delle 17, delle 17,30 ed anche delle 18), nonché confortato dalla consapevolezza che dalle nostre parti l’orario dell’appuntamento (ahimé!) risulta per lo più puramente indicativo e che c’è sempre una buona mezz’ora di tolleranza prima dell’inizio vero e proprio del simposio, trovai  l’intervento del relatore già in atto e le sedie quasi del tutto occupate.

Fortunatamente sul fondo della sala ed accostata alla parete ne trovai una vuota (forse qualcuno l’aveva approntata lì per sé e successivamente aveva cambiato avviso e se n’era andato) e così senza tentennamenti ne presi possesso subito. La postazione mi dava l’agio di vedere le due ali di pubblico assiso, l’una di fronte a me (di spalle) e l’altra alla mia destra (lateralmente), senza peraltro essere granché notato.

Subito il mio sguardo si focalizzò sul relatore, personaggio originalissimo sino all’eccentricità, sia nell’abito che nell’eloquio; forbito, quest’ultimo, e sicuramente rivolto ad iniziati. Cominciai ad interessarmi enormemente a ciò che veniva espresso.

Ne emersero due professionalità a confronto: quella dell’artista trattato e quella del recensore.

La prima: Antonello da Messina, eccelso personaggio siciliano considerato il più grande pittore del suo tempo nonché autore di una traccia indelebile nella storia della pittura italiana (animò culturalmente lo stile e le tematiche della figurativa del ′400 italiano realizzando opere in grado di suscitare in ogni spettatore emozioni e sentimenti);

la seconda: Giovanni Carlo Federico Villa, insigne studioso, docente universitario, eminente recensore, organizzatore di mostre in Italia ed all’estero.

Del primo non è da sottacere la grande valenza che ha fatto sì che le sue opere abbiano raggiunto un universalmente riconosciuto rilievo europeo; e qui, il ribadire tale concetto è del tutto superfluo attesa la notorietà dell’artista; né sono da sottacere le varie esperienze che hanno determinato le tematiche intraprese dallo Stesso, tematiche che toccano gli avvenimenti più significativi della cultura figurativa del tempo.

Del secondo, il già nominato Prof. Villa, è da ribadire l’enciclopedica cultura ed il buon gusto che lo pervadono e lo supportano.

Ma chi è il Prof. Villa?

Personalmente non mi era affatto noto (vedi un po’ la mia cospicua ignoranza!). Perché, cari amici, non è che il Prof. Villa io l’abbia visto nascere e l’abbia  seguito nei suoi graduali successi sino alla maturità; per la prima volta m’è occorso di vederlo disquisire proprio in questo incontro, ripetutamente io invitato a parteciparvi dall’illustre mio parente ed amico Avv. Giuseppe Agnello del foro siciliano e, pertanto, qui disquisendone, mi son dovuto opportunamente documentare sul personaggio e sul suo excursus. D’altronde, è più che risaputo, che sino all’estremo declino s’impara sempre.

E questa rappresenta indubbiamente una indiscussa fortuna per l’essere umano.

Inoltre, che si sappia: se qualche notizia qui appresso addotta avesse a risultare in qualche modo non esatta, si ritenga unico e solo responsabile il curatore che l’ha annotata e dal quale io l’ho presa:

Giovanni Carlo Federico Villa, storico dell’arte, nato a Torino nel 1971, è docente di storia dell’arte moderna,  di museologia e storia della critica d’arte presso la Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Bergamo e, dall’anno accademico 2004/2005 è anche professore incaricato di Tecniche Diagnostiche per i beni culturali presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Studioso di pittura veneta del Rinascimento e Museologo e specialista di tecnologie non invasive applicate ai Beni Culturali,  dal Febbraio del 1998 si è occupato della ideazione e realizzazione di un progetto di analisi  riflettografiche dedicato a Bellini ed ai belliniani ed alla pittura rinascimentale nel Nord Italia.
Con il materiale ottenuto a seguito di campagne di ricerche svolte in oltre settanta tra i principali musei del mondo sta dando vita ad un archivio pubblico di indagini riflettografiche che incamera,  al momento, ben oltre 5000 dipinti. Dal Giugno del 2000 è consulente storico-artistico della Direzione Musei e Conservatoria Civici Monumenti di Vicenza ed ha editato, come responsabile e curatore, i primi quattro volumi (2001-2007) del catalogo scientifico della Pinacoteca Civica di Palazzo Chiericati di Vicenza; inoltre  ha ideato e realizzato il nuovo allestimento e percorsi per il visitatore del Teatro Olimpico di Vicenza.
Dal 2005 lavora per le Scuderie del Quirinale di Roma dove ha curato le mostre “Antonello da Messina”, nel 2006, e “Giovanni Bellini”, nel 2008, e si è occupato della preparazione dell’esposizione monografica su “Lorenzo Lotto”. Ha, anche, curato la mostra “Cima da Conegliano”, poeta del paesaggio per il Palazzo Sarcinelli a Conegliano”, nel 2010.
Oltre ad una intensa attività di conferenziere, ha pubblicato le monografie “Indagando Mantegna”, “indagando Bellini”, “Giovanni Bellini”, ed il manuale (in simbiosi con Gianluca Poldi) “Dalla conservazione alla storia dell’arte. Riflettografia e analisi non invasive per lo studio dei dipinti” .
Per la società Didaké S.a.s. ha, pure, ideato, realizzato e prodotto alcuni documentari d’arte premiati nei maggiori Festivals internazionali. Da ricordare: “Lorenzo Lotto a Recanati”, “Dosso Dossi”, “Vincenzo Foppa. Un protagonista del Rinascimento”, “Massimo D’Azeglio e l’invenzione del paesaggio istoriato” e “Antonello da Messina” (sic).

Un personaggio sì addottrinato, pieno di magnificanti titoli accademici, dotato di una particolare eleganza espressiva nell’esporre, dal tono suadente e non  vessato da pause determinate dalla ricerca del filo del discorso (come a molti avviene), colmo di spirito di docenza fatta carne, un personaggio dal personalissimo stile comunicativo, insomma, che, discostandosi dalla cattedra, s’insinuava fra i seggi dei convenuti esponendo la sua lectio magistralis, a tratti naturalmente dialogando con gli improvvisati discenti, non poteva far altro, accettando l’invito, che onorare Cefalù, il suo popolo, la sua cultura e le sue istituzioni.

Ad uno dei presenti a cui chiese qualcosa sull’argomento che stava trattando e quegli rispose in maniera adeguata, il Villa proferì un sonoro “Bravissimo!” Battuta che mi fece sussultare riportando alla mia mermoria le aule scolastiche ed il mio excursus di discente.

Fu in quel momento che ebbi casualmente a voltarmi verso il pubblico alla mia destra; e la vidi.

Molto più giovane di me, del tutto sconosciuta, stava seduta con le gambe accavallate che fuoruscivano da una gonna che le lambiva il ginocchio libero dal reticolo della calza. Non era né bionda, né bruna, ma solo castana, con i capelli che le piovevano sulle spalle, folti e disordinati come per incuria, ma d’un disordine voluto e preordinato. Le mani conserte in grembo tormentavano il fermaglio della borsa. Il suo viso, visto di profilo, mi colpì. Ostentava un’aria stanca per non dire afflitta. Soffuso il volto pallido di verginal rossore, direi quasi imitando il Manzoni.

In questi casi, amici carissimi, conferenza o non conferenza, quando la donna è giovane e carina come nel presente caso, io sono subito per la consolazione. Ma come fare nel frangente? Come poterla mai consolare o tentare di farlo? Alzarmi, avvicinarla, chinarmi verso di lei e, in piena dissertazione dell’oratore, chiederle cosa avesse e se la potessi aiutare in qualche modo?

Fortunatamente per me, per lei e forse anche per il Villa, questa giovane si alzò ed andò a digerire i suoi tormenti, ove ne avesse (ma sicuramente ne aveva), fuori dell’ambiente, sul corridoio di accesso allo stesso. Vi giunse, s’appoggiò alla ringhiera di ferro che proteggeva il viadotto e nervosamente accese una sigaretta cominciando con voluttà ad aspirarne l’aroma.

Tralasciando per alcuni buoni secondi di seguire l’autorevole oratore profondamente immerso nella dimensione delucidativa in cui s’era lanciato, cominciai a lambiccarmi il cervello sul caso della castana. Alzarmi e raggiungerla? A che pro? Non credo fosse opportuno anche perché il dolore al ginocchio che mi assillava da quasi un mese non mi permetteva quella certa baldanza necessaria all’uopo; e poi la cosa avrebbe di certo creato un possibile scalpore.

Così me ne disinteressai: abbandonai la lei al suo momento di sconforto, almeno da me ritenuto tale, e rifuggii dal compiere una possibile buona azione andando a confortarla,  pur continuando a sbirciarla, di tanto in tanto frullando dei pensieri completamente estranei alla seduta culturale che mi occupava.

Feci, quindi, di necessità virtù e con una espressione più rassegnata che mai continuai a sorbirmi la rievocazione dell’Artista e la prolusione del Recensore.

L’argomento, poi, Antonello da Messina, si prestava più che a fagiolo, essendo Cefalù, com’è risaputo e ripetuto, detentrice della mirabile tavola col ritratto d’ignoto che pare una volta, come sportello, adornasse la scansìa di una farmacia di Lipari, da dove la lungimiranza del Barone Mandralisca l’aveva tratta ed ipso facto trasferita nei ben forniti meandri del suo palazzo in Cefalù, oggi assurto a luogo museale.

Atttesa, quindi, la dotta dissertazione del Prof. Villa, supportata dal suo sopra citato singolare modus agendi particolarmente coinvolgente e d’effetto, la figura dell’eccelso pittore quattrocentesco che ne è venuta fuori, rivisitata, riscoperta, analizzata nei i tratti più significativi delle sue opere visualizzate come attraverso una lente d’ingrandimento ed immancabilmente rinvigorita dal sapiente commento del relatore, ha brillato di novella fausta notorietà innalzando l’autore trattato in un cono di più vivida splendente luce.

Dalla forbita “lectio”, inoltre, sono emersi i due momenti salienti che forgiano la tempra pittorica dell’artista: il noviziato nella bottega napoletana di Colantonio, di cui ha lasciato un preciso ricordo lo storico Pietro Summonte ed il soggiorno milanese documentato dalle carte della Camera Ducale.

Nel soggiorno Lombardo, poi, nasce nell’Antonello una precisa tendenza che lo istrada alla disciplina fiamminga: i ritratti di quel periodo evidenziano personaggi inquadrati per ¾ di profilo dotati di una espressività immanente.

Uno per tutti basti ricordare il ritratto d’uomo conservato al museo Mandralisca di Cefalù, inteso “Il ritratto dell’ignoto marinaio” di cui s’è accennato, nel quale il fine sorriso del personaggio raffigurato adombra un’ironia latente che si appalesa imperiosa grazie alla magistrale tecnica del vigoroso pennello dell’artista.

Ho così avuto così modo di riapprezzare, riscoperte da una oculata stringata critica, opere  spesso sepolte sotto un velo di dimenticanza, o, comunque, poco mostrate; tranne alcune di specchiata rilevanza come: “La Crocifissione”, “I tre Angeli davanti ad Abramo”, il “San Girolamo in penitenza”.

I vari “Ritratti”:  interessanti i due custoditi a Berlino e quell’altro custodito a Roma ed un quarto a Vienna ed un quinto a Pavia; e poi l’ “Annunziata” custodita a Monaco e quell’altra, di più gran pregio, a Palermo, “… autentica icona, quest’ultima, dell’arte del messinese con lo sguardo ed il gesto della Vergine rivolti alla misteriosa presenza che si è manifestata; uno dei più alti capolavori del Quattrocento italiano in grado di sollecitare in ogni spettatore sincere emozioni…” (sic), e quella a Siracusa, il “S. Gregorio”, il “S. Girolamo”  ed il “S. Agostino”, custoditi pure a Palermo ed il “Polittico di S. Gregorio”, a Messina, l’“Ecce Homo”, a Genova, “La Pietà”, a Venezia, “La Pala di S. Cassiano”, a Vienna, “S. Zosimo”, a Siracusa ed il “Cristo alla colonna”, a Detroit.

Significativi, ancora, il “Ritratto” d’uomo conservato al Metropolitan Museum of Art di New York, quell’altro conservato a Philadelphia ed il particolare del “S. Sebastiano” conservato nella Pinacoteca di Dresda.

Le opere di Antonello, giovanili e della maturità, si differenziano per premesse stilistiche ed aspetti formali: quelle della maturità, soprattutto, per una intensa dedizione agli aspetti più intimi della pittura fiamminga. Con queste opere del 2° gruppo l’artista lascia la preistoria del suo vissuto culturale ed entra nel pieno della pittura fiamminga.

Non v’è dubbio che Antonello abbia trasfuso nelle sue opere “… l’immagine più folgorante della sua terra, la Sicilia, con lo splendore del suo sole e la vivacità dei suoi colori, con la malinconia e la tristezza della sua gente in forme di una purezza e semplicità da richiamare i modelli greci ed il senso tragico della vita che è pure senso profondo ed arcano della realtà…” (sic).

Il Prof. Villa, concludendo il suo interessante intervento, ha messo l’accento sull’innegabile fatto che le opere di tale grande artista rivestono rilievo universale e la fine della conferenza è stata salutata da un nutrito continuo sostenuto convinto applauso.

Ma il simposio non ha avuto termine lì, perché successivamente il relatore si è intrattenuto ulteriormente sull’argomento rispondendo affabilmente a molte domande rivoltegli dall’uditorio.

Fotofrafia di Carlo Antonio Biondo

La serata, organizzata e concordata col Prof. Villa dalla Dott.sa Laura Gattuso, colta e raffinata esponente di una Cefalù in progress facente parte del direttivo della Fondazione Culturale Mandralisca, la quale ha aperto i lavori doviziosamente dissertando sulla genesi dell’incontro e presentando la figura dell’illustre ospite, in ciò supportata da un intervento del Prof. Vincenzo Garbo, avveduto docente nonché Assessore alle Politiche Culturali del Comune di Cefalù, il quale ha porto il saluto istituzionale ai convenuti in rappresentanza del Sindaco della città, Rosario Lapunzina, assente per impegni inerenti ai doveri della sua alta carica precedentemente assunti e coadiuvata da altra disamina del Prof. Daniele Tumminello, preclaro Insegnante di materie letterarie intervenuto in loco nella sua spiccata qualità di Vice Presidente del Consiglio Comunale, tutti personaggi di primo piano nella dimensione culturale urbana, si è gradevolmente conclusa determinando un giudizio più che positivo nel pubblico, fra il quale, fortunatamente, difettava la presenza dei molti cercatori di ribalte che per tornaconto personale non mancano mai di popolare incontri di merito dai quali possano lucrare qualche imprevisto favorevole appannaggio.

 

Cefalù, 16 Giugno 2019

                                                                          Giuseppe Maggiore