Osteria numero uno

Ritratto di Totò Testa

24 Giugno 2013, 01:18 - Totò Testa   [suoi interventi e commenti]

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Giorni  fa sono andato a cena da “Iu e me’ frati” con alcuni amici, con la volontà di fare una bella spaghettata, magari accompagnata da un buon vino e da una piacevole conversazione.
Il locale, sebbene sull’insegna campeggi la scritta “Restaurant”, in realtà si mostra come una vecchia e malconcia osteria.
Neanche “tipica” può dirsi, perché di tipico c’è poco o nulla, tanto nel menu che nell’arredo: tavoli di fòrmica, sedie impagliate, tovaglie e salviette di carta, vino sfuso nelle bottiglie a collo svasato, fiori e piante di plastica, fotografie alle pareti che ritraggono i titolari con Brad Pitt, Madonna, Barack Obama, ma si capisce che sono statue di cera di Madame Tussaud.
Altre foto con il mago Atanus, il famosissimo giornalista Matteo Collura, Giucas Casella, Luca Sardella, il corvo Rockefeller con tanto di ventriloquo José  Luis Moreno, il Gabibbo. Queste, sì, sembrano reali, alcune sono addirittura autografate.
Quella di Collura, in particolare, con il copiato dell’intero incipit di un suo libro.
I due titolari, Luigi e Francesco (eh, eh … fregati! - che stavate pensando, maliziosi!), si dividono i compiti di Chef di cucina e Maìtre di sala.
Traduco: Luigi s’arrabatta in cucina e Francesco apparecchi, sparecchia e serve ai tavoli.
Arriviamo intorno alle 21.30, un po’ in ritardo rispetto alla prenotazione.
Eh, già! Per cenare da “Iu e me’ frati” ci vuole la prenotazione! E’ chiaramente indicato sul sito dell’osteria, e occorre lasciare nome, cognome, indirizzo, paternità, codice fiscale, e-mail, numero di telefono, numero di scarpe, orientamenti politici e gusti sessuali.
Quindi, inevitabilmente, prenotazione fu, e fu per le ore 21.00.
Ma alle 21.30 nel locale non c’e ancora nessuno.
Arriviamo in quattro, i soliti. Forse altri due o tre amici ci raggiungeranno dopo, per condividere un dessert e un passito.
Sui sette o otto tavoli non ci sono targhette di “riservato”. Solo su uno, posto nell’angolo più buio, incuneato tra la porta basculante della cucina e quella della “toilette” c’è un pizzino unto di sugna con la scritta “Pesta”.
Al solito! Non so se maledire la mia lingua di pezza o le capacità uditive ed intellettive di chi ha preso la prenotazione telefonica.
Quando mai si è sentito uno che si chiama “Pesta”? Mah!
Chiedo timidamente di avere assegnato un altro tavolo, ma vengo immediatamente redarguito: “Un nu viri ca sunnu tutti di sei o otto coperti, vo’ ca lassu a genti aggritta? Già v’arricampati a st’ura!…”
Inutile contrastare, ci sediamo. Sul tavolo c’è una carpettina, inevitabilmente marròn, come il tinello del fallito del Mocambo e come tutto l’ambiente che ci circonda.
Sulla carpettina una targhetta consumata da un lato, la scritta “Men”.
“Chi sa se hanno anche quella “Women”?” mi viene da chiedermi.
Fa un caldo carnefice, acuito dai vapori mal governati che promanano dalla cucina e condito dagli effluvi militareschi scaturenti dalla toilette.
Il Maìtre Francesco, anch’egli tutto vestito di marròn (scarpe marròn, vestito marròn, camicia marròn, cravatta marròn, faccia marròn come cuoio di sellame, (forse per colpa, anche, della luce di priatorio irradiata dalla lampadina da 5 watt che illumina - sempre siffapperdire - il nostro desco) ci fa sapere che l’aria condizionata è guasta, per colpa della precedente gestione che non ha fatto la manutenzione nel 1999.
Dobbiamo rassegnarci.
Mi decido a prendere in mano il “Men”.“

E’ inutili ca talìi”, tantu di chiddu ca c’è scrittu ddruocu, un c’è nienti!?”

“Allora perché lo tenete sul tavolo?”

“Picchì quannu ni pigghiammu ‘n gestioni u locali vulemmo fari un pocu di scumazza! Ma vinistivu a manciari o a fari conversazioni supra un menù ca è accussi vecchiu ca ci satò la u!”

“Beh, effettivamente io e i miei amici pensavamo di fare una bella spaghettata!”

“Allura spaghetti mari e monti alla spararazzi: cozze, vongole, gamberetti, cucuzzedda curta, funci ….”

“Insomma, mari e monti! Ma perché “alla spararazzi?”

“Picchì c’è l’ingrediente segreto!”

“E qual è quest’ingrediente?”

“U sapemu iu e me’ frati! Sinnò chi segretu è?”

“Giusto, non fa’ una grinza, un puro sillogismo aristotelico!”

“Comu?”

“Lasci perdere, e in alternativa agli spararazzi?”

“Comu?”

“Rilasciamo perdere, ci porti ‘sti sparac… insomma, questi spaghetti, se i miei amici sono d’accordo! E …. ci porti  pure un litro di vino bianco, freddo!”

“Russu a timpiratura ambiente! N’è ca pozzu nfilari u vuttazzu ‘nto firigiderri!”

Confortati dal fatto che, almeno di vino di botte, quindi genuino, ci saremmo abbeverati, aderiamo tutti alla scelta della pasta spararazzi (quella c’è!) e, mentre il Maìtre Francesco porta la comanda in cucina, c’inoltriamo in una disimpegnata chiacchiera d’attesa.
Dall’oblò della porta basculante intravedo lo Chef Luigi cimentarsi ardimentosamente nella preparazione della complessa pietanza dall’ingrediente segreto, spadellando, spargendo ovunque condimenti ed essenze varie, percolando brodi, mungendo creme da un’esausta sac a poche, combattendo princìpi  d’incendio a colpi di mappina biancorossa.
Mi sarei aspettato di vederlo vestito, anche lui, di marròn.
Indossa, invece, una bella giacca da Chef di colore blu-navy, orlata di passamaneria tricolore, in testa un cappello a sbuffo sponsorizzato da una nota ditta di pollami. Sul davanti, più che un grembiule, una parannanza, ostinata teste d’un trapassato fondo bianco, tutta schizzi, sbuffi, frizzi, lazzi e liccuniate dei  più disparati colori, come in un quadro di Mirò.
In cuor mio mi auguro che possa, pur sempre, trattarsi di sostanze commestibili.
Finalmente arriva lo spirlongo d’acciaio con la pasta “spararazzi”, che dovrebbe essere sintesi d’ardite e sublimi mescolanze d’ingredienti, odori e sapori che solo da “Iu e me’ frati” si dovrebbero poter gustare.
E di mescolanza, effettivamente, si tratta, a giudicare dalla consistenza gelatinosa delle cozze abbinata alla fluidità scivolosa dei zucchini, dai gamberetti croccanti avvinti a tronzi di funghi fossili del cretaceo, dalla pasta allo stato colloidale e, poi, … nel latte (!), o nella simile sostanza biancastra che dal fondo dello spirlongo minaccia di tracimare sul pregevole tovagliato cartaceo.
In un moto d’orrore penso possa trattarsi dell’ingrediente segreto, ma vengo subito distolto a causa della propagazione di odori scaturente dallo spirlongo, dove un effluvio acido, come di giovane compostiera si mesce e si coniuga mirabilmente a tenui essenze di cimicia verde scaffazzata, il tutto a preannunciare, come in un sottofondo, la prepotenza di un sapido afrore di depuratore fognario in manutenzione straordinaria.
Cerco rifugio in una sorsata del vino che, l’ineffabile Maìtre Francesco ha appena allavancato sul tavolo insieme alla pasta.
E’ aceto! Di botte, ma aceto!
Lo spruzzo che esce dalla mia bocca e quelli che ricevo addosso dai miei commensali producono l’effetto di una momentanea sanificazione, che consente ad uno dei miei amici di riacquistare l’uso della voce e di urlare, verso la faccia di cuoio del Maìtre Francesco: “Porti via questo schifo!”“

Perché, cosa c’è che non va?” gli ribatte la faccia di cuoio, in un inatteso italiano pronunciato, peraltro, con un accento da “Bassa” padana.

“C’è che questa pasta è uno schifo, una ciofeca, un liquame di fogna!”

“Innanzi tutto non si alteri e non urli, perché ci sento benissimo, e poi, come si permette di usare questi termini offensivi se la pasta non l’ha neanche assaggiata? E, poi, chi è lei? Un critico gastronomico, un grande chef? Come si chiama lei, Vissani,  Raspelli, Ducasse? Prima di criticare la cucina di mio fratello che, invece, è un grande chef, stellato e patentato, dovrebbe imparare a cucinare. Ed, in ogni caso, deve assumersi la responsabilità di indicare chi, come, dove, quando e perché  ha provocato il suo mancato (e del tutto soggettivo) gradimento! Chi è stato, il cuoco, il pescivendolo che ci ha fornito i gamberetti e le cozze? Il fruttivendolo che ci ha fornito i funghi e le zucchine? Avanti, parli, anzi, se è convinto di quello che dice, perché non va subito dai Carabinieri, dai Nas e ci va a denunciare? Ma lo sa che noi abbiamo tutta la filiera certificata, che, anzi, per certificare la nostra filiera si è costituita apposta una nuova società di certificazione perché quelle che ci sono tutte fasulle? Non vuole assaggiare la nostra pasta? Allora si vada a fare curare, curare, sì, perché lei e molto strano, lo sa? Anzi, lei ha proprio  le visioni olfattive! E, sì, perché la nostra pasta “spararazzi” piace a tutti! Solo a lei non piace, anzi solo a lei e a questi suoi amici! Perché io vi conosco, voi siete quei quattro sfigati che scrivono su quel giornaletto da quattro soldi, buono solo a criticare e a denigrare chi sa lavorare e cucinare con impegno e competenza! Uhè, ma lo sapete che potrei denunciarvi tutti per diffamazione?.....”

Proseguì così per una buona mezz’ora, nonostante i nostri tentativi di fargli capire che la pietanza che “Iddu e so’ frati” stavano tentando di servirci, a nostro sommesso e libero parere, non era presentabile già nell’aspetto e nell’odore e che la nostra ostinata volontà di non assaggiarla, tutto sommato, lo proteggeva dall’eventualità di provocarci un’intossicazione e, quindi, dalla conseguenza di doverne rendere conto.
Non ci fu nulla da fare. Dopo aver pagato il conto per un cibo che non avevamo mangiato e per un servizio che non avevamo ricevuto, a fronte, però, di regolare ricevuta, decidemmo di andare a mangiare, sotto il cielo stellato, una brioche con il gelato. Ché, almeno, quello, qualcuno lo sa ancora fare. E il cielo, dalle nostre parti è sempre, più o meno, lo stesso.

La verità è che noi e tanti come noi, quell’osteria, la frequentiamo da tempo.
Prima, però, non si chiamava “Iu e me’ frati”, ma “La casa di tutti”.
Le porte erano sempre aperte e non c’era bisogno di prenotarsi.
Nella gestione si sono alternati diversi osti. Alcuni avevano modi signorili e linguaggio da intellettuali, altri si mostravano più dimessi, a volte, addirittura, più ignoranti della càlia, ma tutti (o quasi) si sono saputi prendere cura della trattoria e degli avventori.
Tutti, in ogni caso, si sforzavano di cucinare pietanze quantomeno commestibili.
Dalla cucina esalavano odori, a volte forti, a volte contrastati, ma mai nauseabondi, e prevalevano, non di rado, i profumi sprigionati da piatti più semplici, fatti d’ingredienti freschi e genuini.
Alle pareti c’erano i versi di un poeta contadino, le parole scandite di grande e tormentato scrittore locale, le frasi immaginifiche di una grande penna dei dintorni che tanto amò quella nostra città e quella nostra trattoria.
C’erano le immagini e gli autografi di attori famosi, di intellettuali, di maìtre a penser.
Per questo ci chiediamo: com’è potuto succedere che “La casa di tutti” si sia ridotta così?
Per quanto mi riguarda, non credo di essere capace né di comprenderne le ragioni, né di trovare rimedi.
Rimango del parere, però, che, se una pietanza mi fa schifo, ho il diritto, semplicemente, di esprimerlo senza per questo dover chiamare in causa cuochi, commercianti, allevatori, pescatori, parrini e gendarmi  e, soprattutto, senza dover sottostare all’obbligo di assaggiarla.
Bisogna, però, che mi abitui all’idea che forse sono io e qualcun altro ad essere sbagliati, forse perchè abbiamo l’olfatto troppo sensibile, o il palato troppo fine e non siamo in grado di apprezzare le  pappine che in così tanti sembrano gustare e gradire.
O, forse, siamo semplicemente troppo vecchi e legati ad un tempo in cui la menta odorava di menta, il pane di pane e, scusate, la cacca di cacca.
Beh, di questo me ne farò una ragione, ce ne faremo una ragione, o forse no.
In fondo ci vuole solo un poco di pazienza, e aspettare che passi, o la nostra malattia o la gestione dell’osteria.

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