Maria Francesca Rizzo - L’Italia chiamò - I “dimenticati” della Storia - Qanat

Ritratto di Rosalba Gallà

9 Ottobre 2013, 19:32 - Rosalba Gallà   [suoi interventi e commenti]

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MARIA FRANCESCA RIZZO - L’ITALIA CHIAMÒ - I “dimenticati” della Storia - QANAT
di Rosalba Gallà

 

Può accadere che un uomo, un ‘ragazzo del 1899’, un soldato che ha dedicato tutta la sua vita a ‘servire la Patria’, che ha conosciuto “l’infinità dei gialli della savana e del deserto”, “gli ocra, i bruni, i rossi che si alternavano durante le ore del giorno e il succedersi delle stagioni, gli arancio dei tramonti che infuocavano l’orizzonte infinito” della “quarta sponda”, quella d’Africa, e poi il “bianco, bianco dappertutto” della Russia, dove ha imparato “a distinguere una gamma imprecisata di toni del bianco”, dopo lunghissimi anni in cui ha dato ordini ai suoi sottoposti, scopra la bellezza di obbedire e di capitolare davanti ad una “bambolina rosa e bruna” che porta il suo stesso nome.

E può accadere che quella bambolina, divenuta donna, avverta forte dentro di sé l’esigenza di rendere omaggio al nonno, uno dei tanti dimenticati della Storia, eroe per tantissimi anni, ma portatore di un “marchio d’infamia”.

Nasce così un libro, in cui la ‘grande storia’ entra nella ‘piccola storia’ di un uomo, di una famiglia, di una travagliata discendenza: Maria Francesca Rizzo - L’Italia chiamò – I “dimenticati” della StoriaQanat.

Quella bambina/donna è Maria Francesca Rizzo, la quale dà voce al nonno, a Francesco Rizzo, attraverso la raccolta di lettere, documenti e testimonianze, e gli lascia raccontare la sua grande/piccola storia, dal momento dell’arruolamento, ad appena diciassette anni, fino al 1969, anno della promozione a Generale di Brigata, quando ormai quell’onorificenza è “ridicola”, perché “non c’è più nessuna guerra da combattere, se non quella con la morte che mi attende al varco ogni giorno”.

Così, nell’autunno della sua vita, in un autunno in cui “l’aria sta perdendo quell’alito estenuato dell’estate”, attraverso Francesca, Francesco Rizzo mette sulla carta ciò che ha vissuto nel corso della sua esistenza, e la scrittura diventa un sostegno nelle notti insonni, prima che la stanchezza lo “accolga amorevole tra le sue braccia” concedendogli un po’ di sonno da cui, in maniera circolare, si risveglia alla fine della narrazione, quando “il sole si sta alzando tra le nebbie del mattino” e “l’autunno reclama il suo spazio, con questa umidità mattutina, con quest’aria fresca che sa di foglie secche e di funghi”.

Un lungo racconto, dunque, tra un abbandono nel sonno e un risveglio: uno scrivere per se stesso e per la sua bambina, “perché sappia, nel bene e nel male, chi era suo nonno e, forse, qualche volta, se lo ricordi”.

E Maria Francesca Rizzo lo ha ricordato e lo ha raccontato a tutti noi.

Si tratta di un uomo che ritiene di essere stato “arido e scostante, presuntuoso e duro”, consapevole però che “per ogni sorriso, per ogni carezza negata, per ciò che ho dato e ricevuto c’era sempre, c’è sempre stato e sempre ci sarà un dolore sordo e profondo, continuo e ossessivo come un interminabile rintocco di campane, che mi ha impedito di vivere con amore, di amare con amore”.

Ragazzo del ’99, a diciassette anni fu uno dei tanti giovani arruolati e poi addestrati a risollevare le sorti italiane nel primo conflitto mondiale: a Palermo “esplodeva la primavera” e Francesco Rizzo respirava “a pieni polmoni quell’aria che sapeva di mare, di alberi in fiore”, mentre “sulle montagne del Nord la primavera sapeva di freddo e sangue e fame e paura”. Nonostante ciò, al rientro nella sua città, era già consapevole che l’uniforme lo avrebbe accompagnato per sempre e la vita militare avrebbe generato i colori della sua esistenza. Questa scelta lo avrebbe portato, nel corso della seconda guerra mondiale, in Africa, in Francia, in Albania, in Jugoslavia e, infine, in Russia, attraverso esperienze fisiche e mentali che gli avrebbero rovinato per sempre il corpo e lo spirito e lo avrebbero costretto a frequenti ricoveri per curare l’uno e l’altro.

La vita militare e il dovere, prima di tutto: anche il matrimonio con Matilde era stato veloce, perché il soldato Rizzo doveva ripartire, e celebrato in autunno (stagione dominante in tutta la narrazione), “quando l’ultimo respiro dell’estate rimane sospeso nell’azzurro smaltato del cielo”. Ma “lei lo sapeva. Lo sapeva che sarei scappato presto da quella sorta di gabbia dorata, fatta di calore e amore, spinto da quel demone della guerra che mi chiamava ad unirmi ai miei uomini nella follia di quel conflitto così lontano, così pericoloso, così insensato”.

E poi l’inferno in Russia in cui trovare, nonostante tutto, la “spinta a continuare a vivere in quell’incubo di neve e di morte”: sofferenze atroci e grandi gesti di solidarietà umana, rischio costante di morte e irrefrenabile istinto alla sopravvivenza, desiderio di annullarsi nel bianco della neve ed eroismo quotidiano. Il bianco della Russia con “cielo e terra ugualmente inghiottiti da una coltre immacolata e impenetrabile” costituisce una delle componenti fondamentali della sua esistenza: ma il “bianco dappertutto” è anche in ospedale, bianco su bianco, nel presente e nella memoria, nella salvezza delle cure come nel rischio di morte delle distese russe. Un bianco, quello dell’ospedale,  dove “la neve non è più fredda e dura, ma morbida e profumata di bucato, di disinfettante, di pulito”, ma dove si consuma la tragedia del Maggiore Francesco Rizzo: una firma apposta con lo scopo di salvare la propria famiglia, ma che sarà il “marchio d’infamia in quella che, fino ad allora, era stata una brillante carriera militare”.

Rizzo fu riabilitato nel 1951 con la promozione a Colonnello, promozione che successivamente gli venne revocata e poi definitivamente confermata nel 1960: nel 1969 arrivò, ma ormai troppo tardi per il suo animo provato, la promozione a Generale di Brigata.

Questa storia del soldato Rizzo si intreccia con quella dell’uomo Rizzo, che dichiara di avere amato senza amore, ma che ha amato davvero la sua Matilde, alla quale sono indirizzate molte sue lettere e tutto il suo affetto, alla quale talvolta si rivolge direttamente durante il suo racconto, anche se lei non c’è più. E poi il dolore per un figlio mai avuto, e poi la gioia di un figlio arrivato ma con un grande segreto, e poi il segreto involontariamente svelato con le inevitabili conseguenze… e poi Francesca.

Una scrittura semplice, asciutta, da militare che va dritto all’essenza delle cose, senza orpelli; una prosa condensata che solo in alcuni momenti svapora in frammenti lirici che forse sono di Francesco, forse di Francesca.

“L’Italia chiamò”: un libro che, tra la grande storia mondiale e la piccola storia di un uomo, sa regalarci squarci di una Palermo in trasformazione, splendida nei suoi palazzi signorili, frequentati da Francesco e Matilde, e poi offesa dalla guerra e poi ancora da scelte inopportune che l’hanno modificata per sempre.

E ancora, un libro che parla di incontri importanti, come quello con Indro Montanelli: oltre ai ricordi e alle impressioni di Francesco Rizzo, di lui rimane una lettera che, come dice l’autrice “è una delle più preziose ‘reliquie’ di mio nonno, sopravvissute insieme alle innumerevoli medaglie, decorazioni ed onorificenze, che ne attestano l’innegabile valore militare e umano”.

Un libro che non inventa nulla, che ha il sapore e il peso delle cose vere, delle esperienze vissute, delle “vecchie ferite che, con gli anni, invece di attutire la loro presenza, si risvegliano e lacerano la pelle, puntualmente ad ogni cambio di stagione”.