"Nugas ago"

Ritratto di Giuseppe Maggiore

15 Gennaio 2014, 19:29 - Giuseppe Maggiore   [suoi interventi e commenti]

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“NUGAS  AGO”
(sempre ed esclusivamente per i “dotti”;
 gli altri si annoierebbero o, forse, anche gli stessi dotti)

di  Giuseppe Maggiore

 
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      Il Prof. Vincenzo Rosso, uomo probo, di sani principi e di preclare  spiccate virtù, Che mi onora della Sua ambita Amicizia e che già per ben due volte con i suoi due interventi, “Elogio di un Amico” e “Rielogio di un Amico” (una risciacquatura del primo, quest’ultimo), pubblicati su questo stesso Foglio telematico, mi ha portato ai fasti della ribalta, mi invita alla comprensione, alla sopportazione e alla compassione di quel solito mio beneficato (qualifichiamolo pure) sodale, regista indipendente e quant’altro, che ci tiene assolutamente a conservare l’anonimato per le ragioni da me a suo tempo addotte nella mia precedente disamina dal titolo “Proemio – per una Lei” che pure ha visto la luce or non è guari su questo prestigioso giornale, perché ritiene che il suddetto sia meritevole di qualche attenzione.
 
 
      L’emerito professore mi spinge, dunque, alla compassione di quest’anima semplice e fantasiosa, per certi versi anche vessata dalla contingenza di un reale incerto e non gradito, oberata dalla tasse, ignorata da capziosi sguardi femminili (sia per l’età che per l’esiguità del posseduto suo numerario) e mi esorta a dimostrarmi magnanimo verso questo amante dell’arte aiutandolo al bisogno e a non arroccarmi dietro abusati atteggiamenti intellettuali di una certa levatura, figli naturali di una palese deprecabile insopportazione. 
      Perché, se una persona posata e benigna come me non tiene conto delle nature inferiori, degli autoemarginati, degli illusi, dei meno fortunati e perciò amareggiati, i quali si manifestano tali anche per delle motivazioni improprie e del tutto inconsistenti e che non si risollevano moralmente neppure dinanzi ad opere di riconosciuto pregio che infondono entusiasmo quali i quadri, non dico del Caravaggio, di Cimabue, del Pinturicchio o di Leonardo che siano, ma nemmeno dinanzi a quelli di Peppe Forte e di Anna Maria Miccichè, se, quindi, non si ha considerazione per la gente comune (qual’è il mio citato collega), insomma, che pur avendo la consapevolezza di certe proprie culturali valenze vive nell’ombra e nella speranza di prestigiosi riconoscimenti futuri o di ambite attribuzioni onorifiche più che delle ripaganti piccole soddisfazioni giornaliere, ditemi un po’ ,Voi, che uomo si è? 
      E così, fatta di necessità virtù e per non venire meno agli accennati preziosi suggerimenti sempre improntati alla più acuta saggezza fornitimi dal prefato illustre Amico Prof. Enzo Rosso, che qui addito a modello per la magnificazione delle generazioni future (frase che altrove ebbi ad usare non so più per chi), anche questa volta, dunque, mi piego a tendere una mano a questo oscuro innominato artista, nonché collega, nonché fratello di latte e che oltre al cinema vanta pure tendenze nel campo letterario e recensorio, che mi trovo costretto a rappresentare, obtorto collo, patrocinando la stampa di questa sua ennesima risibile composizione pur paventando il possibile discredito che me ne potrebbe venire per la mia ostentata liberalità; composizione, che (e qui lo affermo senza prevenzione alcuna ma con estrema convinzione!) per me, lo dico francamente, non riveste alcun valore artistico e, credo, neanche per Chi avrà la degnazione di leggerla.
       Per lo meno, debbo ammettere (e ciò è il solo credito che posso vantare a favore di questo eclettico personaggio) che la detta poesia sottopostami, dall’emblematico titolo “desiderium obstatum” e anche le altre che costui ha sfornato e che mi è stato dato di leggere, rispettano tutti i caratteri della forma della classica vera poesia tradizionale: componimento che si basa sulla metrica, sulla rima baciata o alternata e sulla scrupolosa osservanza dei “piedi” (non quelli dentro le scarpe, naturalmente); che poi i versi siano licenziati in terzine, quartine, sestine, ottave o endecasillabi, non ha alcuna importanza.
      Mi corre l’obbligo di convenire, altresì (è qui mi dichiaro in perfetta simbiosi col mio rappresentato), che una delle tare dei tempi moderni è proprio quella di volere ad ogni costo evitare le difficoltà ed andare subito sul facile; e poiché, infatti, restando nell’ambito poetico, ci si è accorti che esprimere un concetto in versi, con la “rima”, cioè, contando scrupolosamente i “piedi” e così mantenendo fluidi sia la “metrica” che il “ritmo” dell’assunto (peculiarità insostituibili, come già accennato, della vera poesia intesa nel suo più alto senso tradizionalmente classico), non è affatto facile, allora, per semplificare e non essere condizionati da una complessa struttura letteraria che limiti la libertà dell’espressione si è preferito, dai più, saltare a piè pari l’ostacolo ed esprimersi liberamente esternando il verso in “periodo” e trascurando in tal modo tutti quegli altri attributi e presupposti che sono retaggio del più puro classicismo.      
      E così si è addivenuti alla “poesia” cosiddetta “moderna” che è il frutto, appunto, di una discutibile semplificazione. E per questo mi spiego perché oggi non vi siano più degli Hugò, dei Manzoni, dei Dumas, dei Nietzsche e, nel reparto musicale, dei Beethoven, dei Mozart, dei Rossini, tanto per citare quelli che ritengo massimi.
     Ciò non toglie tuttavia (diciamola tutta, se vogliamo dirla) che molti attuali componimenti poetici, senza “rima” e con la “metrica” e i “piedi” pressoché inesistenti, seppure carenti di tali presupposti di stampo squisitamente aulico e che, comunque, io acclaro come prestigiose espressioni liriche, siano dei capolavori da allogare più alla silloge dei “carmi” e dei “poemi” che al saputo filone tradizionale dai “dotti” (per fare riferimento all’incipit di questa prolusione) universalmente apprezzato. 
      Basti pensare a questo proposito, disquisendo più della sostanza che della forma e limitandoci al nostro comprensorio, ad alcune composizioni di spiccata vena intimistica licenziate in lingua o in vernacolo da Liliana Mamo Ranzino (“”Dalla fede alla poesia”, “Raggi di luce”, “Briciole di vita”, ”Eterna contemplazione”, “La me cuvata”), nelle quali la profonda dimensione della fede travalica la parola scritta ed assurge ad entità liberatoria in un universo lirico di estremo candore dove l’autrice si pone non come semplice osservatrice ma come parte integrante dell’opera; o a quelle di Margherita Neri Novi (“Li coccia d’oru”, “La me terra”, “Chianci Palermu”, “Ora tu cuntu”, “Fimmina”), che esprimono un’attenzione ed un afflato non comune verso un sentimentalismo puro portato al diapason e immerso in un empireo in cui la linfa intimistica rappresenta il motivo dominante che fà dell’artista l’interprete ideale di una verità costantemente cercata e spesso raggiunta. 
      Per non citare, poi, anche il noto Antonio Barracato, ancora giovane nelle vesti di poeta ma che già dimostra versatilità nell’espressione lirica (“Strati e stratuzzi”, “L’amanti”, “A verità e a pazzia”, “L’Arti”) e il già aduso alla materia Franco Catalano (“Peggiu r’accussì”, “Chiacchiri ri bar”, “Lu sparrittieri”, “A rucazioni”), autori che s’inoltrano con efficace baldanza e con buon risultato nei difficili meandri di una dimensione letteraria nella quale trasfondono le loro più oculate notazioni giungendo attraverso un personale excursus a vette  liriche tutt’altro che trascurabili.
      E’ opportuno, a questo stadio, inoltre, notare come la eliminazione della rima, semplificando la struttura del verso, abbia portato al fenomeno di una immane fioritura di artisti che hanno eletto il “periodo” a propria dimensione poetica.
 
 
      Lo stesso discorso, dacchè ci siamo, che il mio citato collega tiene per fermo e che mi trova perfettamente d’accordo con lui (non posso d'altronde sottacerlo, sia per rispetto di me stesso in quanto cinematografaro indipendente che, di conseguenza, anche per quello suo), si può fare per il settore cinematografico indipendente in relazione  alle attrezzature di realizzazione oggi in auge presenti in commercio.
     Né sono da sottacere, inoltre (e questa, a ben vederla, non è affatto una digressione dal tema principale del presente assunto e di cui sto trattando), gli enormi vantaggi che le odierne telecamere digitali e i computers con le loro molteplici possibilità tecniche basate sull’elettronica riescono a fornire sia in sede di ripresa che di montaggio, ottenendo immagini, effetti speciali e suono altamente professionali.
       Tali moderne attrezzature hanno obliterato le vecchie storiche macchine da presa e le moviole per il montaggio, di natura preminentemente meccanica; con i quali vetusti mezzi, sempre a livello “indipendente”, era un’ardua impresa girare un film.
       Infatti, tanto per fornire una larvata idea in proposito (ai neofiti e ai simpatizzanti del settore) circa la complessità dell’iter operativo nel bailamme delle mille difficoltà spesso insormontabili a cui si andava incontro: per realizzare un film bisognava effettuare le riprese alla cieca, senza, cioè, poterne costatare subito il risultato (mentre adesso, messi a riposo i laboratori di sviluppo e stampa grazie all’elettronica, si può rivedere il girato immediatamente dopo la ripresa controllandone la resa nei suoi più minuti particolari).
       Bisognava, poi, a riprese concluse, inviare il “negativo”  a Roma per lo sviluppo e la stampa del “positivo”; ritornato il quale e visionato (dopo una quindicina di giorni), rifatte le opportune correzioni rigirando qualche pezzo venuto male e, quindi, provvedendo al risviluppo e stampa del medesimo, bisognava “montare” il positivo tagliando materialmente la pellicola e incollandone i pezzi secondo l’ordine delle sequenze previsto dalla sceneggiatura.
      Così si otteneva  la copia di lavorazione muta, che, assieme al negativo, si doveva rinviare al laboratorio romano per il taglio di quest’ultimo e per la conseguente stampa della cosiddetta “copia campione”.     
     Questa, a sua volta, dopo il rituale controllo, doveva essere rimessa (il vai e vieni era inevitabile!) ad altro laboratorio per l’applicazione della “pista magnetica” per la conseguente sonorizzazione; “pista magnetica” in quanto il sonoro “ottico”, che presupponeva laboriose e costose supplementari lavorazioni professionali, era completamente impensabile per una produzione non industriale.
      Non vi siete ancora stancati a seguirmi? Io si, a procedere, pur trattandosi di pura e semplice rievocazione.!
       E le incombenze non finivano, certo,  lì! 
       Perché, ritornato al mittente, il film doveva essere sonorizzato con un precario procedimento che avveniva durante la proiezione stessa. Così operando si otteneva un sonoro non asettico a causa del percepimento da parte del microfono del rumore del proiettore in funzione.
      A non voler parlare, poi, dell’acquisizione del sonoro in “presa diretta”: rumori e dialoghi, recepiti dalla “giraffa”, venivano trascritti su un nastrino magnetico e da qui, successivamente, riportati sulla pista magnetica della pellicola.
     Impresa titanica, insomma, che forniva dei risultati discutibili.
     E’ opportuno tener presente, ribadisco, che le espresse difficoltà di lavorazione riguardavano esclusivamente il cinema indipendente, (o cineamatorismo che dir si voglia); non certamente quello professionale, industriale, che si avvaleva di mezzi tecnici perfezionati, di laboratori efficienti, di maestranze preparate e di possibilità di sostenere costi di produzione elevati.
      Oggi, invece, come accennavo prima, per la ripresa basta premere il bottone d’avvio della telecamera per ottenere immagini, suono e quant’altro immediatamente con una resa tecnica invidiabile; e poi il montaggio, fatto col computer che fornisce pure gli effetti speciali, dà un prodotto inappuntabile.
      Tale enorme semplificazione ha fatto sì, in simbiosi con quanto è avvenuto in letteratura, che è pure emersa una grande fioritura di registi indipendenti, patentati dai festivals cinematografici che si sono letteralmente decuplicati.
      In buona sostanza, dunque, chiunque oggi abbia in mano una telecamera digitale non ha che da premere il bottone di messa in marcia per  diventare  “regista” di fatto.
      L’elemento imprescindibile che rimane invariato sia per la sorpassata macchina da presa che per l’odierna telecamera digitale è soltanto il talento dell’autore: se non lo si ha non si conclude un bel niente né col primo, né col secondo mezzo. 
      Un terzo aspetto del settore “cinema” (dal momento che mi ci trovo a fare questa “lectio magistralis” ad usum delphini cerco di farla al meglio!), che mi porta ulteriormente a condividere il pensiero del mio dichiarato “collega”, riguarda l’attuale inopportuna e moralmente scadente produzione industriale: al 90%, infatti, i film che invadono lo schermo, sia quello cinematografico o (ben più grave) quello televisivo, sono film di violenza, con sparatorie, orrendi visualizzati delitti e quant’altro.
      Mi chiedo: una simile catechizzazione a cosa porta? Quale sarà la società di domani, attesa la gioventù di oggi imbevuta da un consimile deprecabile addottrinamento? Non ci sono altri filoni più culturalmente interessanti e più istruttivi da percorrere che vincano la preponderanza di quelli violenti?
      E questa è la prima considerazione da farsi.
      Né dimentichiamo, poi, la tecnica usata. 
      Molti di quelli che una volta venivano considerati errori belli e buoni dalla “grammatica” cinematografica oggi sono assurti a stile; per fare un esempio, che so: una panoramica traballante, una brevissima interruzione nel fluire del movimento filmico o addirittura esemplificarlo a scatti, una zoomata non armonica, un controcampo inopportuno che disturba e disorienta il punto di vista dello spettatore oppure una scena quasi completamente al buio, sottoesposta al massimo per significare la notte, dove non si vede altro che qualche punto luminoso. Se l’immagine non viene percepita, che immagine è? 
      Per non parlare, ancora, dell’odierna “consecutio temporum”: il montaggio.
Vorticoso, veloce, costituito da brevissimi pezzi susseguenti che non dànno modo di visualizzare bene la situazione. A ciò si aggiungano pure le didascalie, quando ci sono, mantenute in quadro per brevissimi secondi; sistema che non  consente di leggere un bel niente.
      Al contrario, i film di una volta erano di più largo respiro, sia come soggetto, come inquadratura e come illuminazione, con un montaggio meno rapido e più congeniale al tema trattato.
      Mi avvedo che mi sono lasciato andare ad entrare nel dettaglio degli argomenti elettivi che mi legano all’indole del mio innominato collega, forse appesantendo il tono della presente disamina.
      Ma certe cose, una volta per tutte, è bene dirle, anche se si corre il pericolo di essere considerati dei retorici o di essere  tacciati di mero conservatorismo.
      Per tali considerazioni, dunque (e qui lo ripeto ad libitum), mi sono piegato ad aderire alla ulteriore preghiera rivoltami dal sullodato (suffragata dai fattivi ripetuti suggerimenti sopra esposti del preclaro addottrinato mio Amico Professore) di inoltrare per la pubblicazione il detto pseudo sonetto “desiderium obstatum”; impegno che mi accingo ad assolvere con contenuta benevolenza sperando  che il Cielo abbia pietà di me!
      Quantunque, poi, fra l’altro (mi si perdoni la notazione di natura prettamente cortilesca) questo mio benedetto amico regista indipendente non è che mi si dimostri grato per quanto io faccia per lui: per niente! Costui non conosce affatto il noto aforisma latino “..do ut des..”. Se gli chiedo, infatti, di fare qualcosa per me mi risponde che è impegnato o che è stanco; oppure fà finta di niente e taglia corto cambiando discorso. E non mi gratifica nemmeno di un qualsivoglia altro contraccambio; si limita esclusivamente a proferire un semplice “grazie”, seppure ripetuto con tono euforico  e buonanotte al secchio! La cosa finisce lì!
      Sia beninteso: non che io pretenda qualcosa in cambio della mia prodigata opera, perché ciò che faccio lo faccio per il piacere di farlo, per hobby, insomma. Ma, Santo Cielo, tu che hai fatto dei film, caro amico innominato, regalami almeno un DVD con uno di essi o per le feste mandami  anche un elementare biglietto di auguri o fammi una telefonata. Insomma, dammi un misero attestato della tua riconoscenza, se ti senti di averla, oltre all’abusato “grazie” di prammatica, tanto per farmi capire tangibilmente che mi sei rimasto grato per quanto io abbia fatto per te.
      Ma, al bando le geremiadi! Non è mio costume recriminare e passo senz’altro a licenziare alle stampe la susseguente poesia consegnatami:
 
 
“DESIDERIUM OBSTATUM”
 
(“Varium et mutabile semper femina
la donna è sempre un essere variabile e mutevole)
 
 
E’ flessa la voglia
che crea la vita!
La donna s’arretra:
la faccia contrita!
 
Si turba, saltèra,
rifiuta il rapporto;
si sdegna, respinge,
lo guarda un po’ storto.
 
Dichiara ch’è stanca,
che ha mal di testa,
che sempre lavora,
che mai non fa festa;
 
che oggi in ufficio
è stata costretta
a far l’inventario
per più d‘un’oretta.
 
E a lui che inghiotte,
sorride e l’osserva,
decisa ribatte:
“non sono la serva!”
 
E l’uomo assentisce;
propone qualcosa.
Ma ella s’adonta
di mettersi in posa.
 
Rifiuta le calze 
color de la notte;
s’imbroncia, s’infuria,
s’appiglia a le lotte.
 
Rifiuta le scarpe
dal tacco appuntito;
rifiuta l’anello
da mettersi al dito.
 
Non vuole indossare
neppur la sottana,
il nero indumento
di seta gitana!
 
Respinge il bustino
ripien di merletto
e in faccia gli grida:
“non son donna oggetto!”
 
Pur l’uomo s’adonta,
frustrato e confuso;
non sa cosa fare:
rimane deluso.
 
E sbotta a la fine 
con grande amarezza:
“Anch’io sono stanco
ma vo’ tenerezza!
 
“Anch’io sono immerso
nel duro lavoro,
fra mille magagne
e senza ristoro!
 
“E a sera, tornando
al talamo avito,
io cerco l’amore
non solo il convito!
 
“Da quando venivi
a farti baciare
sul piano, sul colle,
in riva al bel mare,
 
“ti trovo mutata,
mia dolce compagna.
Sarà il tuo lavoro
la trista magagna?
 
“Oppure gl’influssi
del viver moderno?
Gl’impegni? Le amiche?
L’estate o l’inverno?”
 
Suasivo, prosegue;
ma è fiato sprecato.
Lei snobba  l’intesa.
Lui appare sfiancato.
 
Gli sembra pugnare
col duro granito.
La fissa, seccato;
si sente avvilito.
 
E cova nel petto
il dubbio insistente
che a volte il progresso,
in ogni settore,
frastorna la mente;
turlupina il cuore!
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Cefalù, Gennaio 2014                                                                                                                                            Giuseppe Maggiore