24 Maggio 2015, 21:54 - Enza Vazzana [suoi interventi e commenti] |
A ridosso del muro
di
Enza Vazzana
Da 65 anni Suor Clementina fingeva una vocazione che era certa di non avere mai posseduto, ed una fede imposta con l’inganno che le aveva garantito unicamente la reclusione eterna.
Alla giovane età di quindici anni, al tempo in cui si chiamava ancora Fiammetta, venne obbligata dal padre, Barone Nicola della Qualeeperlaquale, e dalla matrigna Baronessa Lucia della Filinia, ad un breve soggiorno nel Monastero di Santa Maria, in cui avrebbe appreso le norme fondamentali per svolgere adeguatamente il ruolo di moglie. Ovverosia l’umiltà, la subordinazione e la devozione al marito.
Così le dissero!
Lei accettò di buon grado, in quanto nulla le era più gradito che rendere perfetto il matrimonio con Niccolò, capitano di cavalleria dell’esercito borbonico, nonché cugino in secondo grado, di cui era profondamente innamorata.
L’unione, intensamente desiderata, era stata perfino ratificata dal notaio con tanto di atto in cui entrambi i futuri sposi, di comune accordo, “Davano l’unanime consenso di volersi maritare sotto il regime dotale, della natura ed effetti dissero essere appieno intesi”.
Quanto le piaceva ripetere quell’espressione che sanciva una promessa solenne d’amore e, nel contempo, consolidava economie, privilegi ed ampliava feudi.
I beni che Fiammetta portava in dote, elencati in dodici fogli di carta pergamena, includevano numerosi latifondi e relativi usi: a foraggio, a pascolo, a vigna, a canneto, oliveto, frumento, orzo, alberi fruttiferi. Vi erano inoltre annotati le sorgenti, le senie e persino i fiumi, le case patronali, le masserie e il numero dei dipendenti. I feudi concessi in enfiteusi annuale ed il ricavo stabilito.
Dodici fogli che, per la Baronessa Lucia della Filinia, ebbero l’effetto di un salasso che le sbiancò ancor di più il volto incipriato. Dodici pagine, come dodici spade che le si infissero nel costato.
Il suo personale calvario si concluse alle otto di sera con la formula finale vergata dal notaio: “In fede di che, le parti e i testimoni, …” tricchi e barracchi e si apposero le firme.
La porzione dei beni concessa in dote dal Barone Nicola all’unica figlia, pur sembrando cospicua, di fatto, fendeva parzialmente la sterminata fortuna in suo possesso, talmente estesa da consentirgli di affermare, non tanto ironicamente, di essere il proprietario indiscusso di una delle Due Sicilie.
L’altra metà si era altalenata tra mani spagnole, sabaude ed austriache e, da circa un ventennio, pareva finalmente riposare in mani borboniche.
Alla cena che seguì l’accordo matrimoniale, la Baronessa Lucia intervenne per dovere d’ospitalità, ma senza entusiasmo alcuno. Ed il suo malumore lievitò proporzionalmente alla gioia dei convitati, alimentata da quell’ottimo vinello, vanto del Barone, che, implacabile, esaltava l’euforia e stoccava le gambe.
Dissimulando partecipazione all’argomento cardine della serata, la donna si espresse con brevi frasi di rito: “Se son rose fioriranno!”, “Speriamo Dio che sarà una bella unione!”, rimarcando volutamente i verbi e nutrendo la speranza che: “Nel futur non v’è certezza!”
Nel contempo osservava la figliastra che la stava portando alla rovina, l’imbecille del Barone, nonché suo marito, che si stava scavando la fossa con le mani, il fidanzato di Fiammetta ed i consuoceri che si stavano spolpando il pollo.
Oddio, poteva pur ammettere l’amore tra i ragazzi e l’affetto dei loro genitori, ma assistere alla compartecipazione sentita del suo Paolo, figlio di primo letto, ebbe, sulla Baronessa Lucia, l’effetto di una tredicesima lama nel cuore.
Il capitale compromesso e il figlio “scimunitucomesuopadrebuonanima” era intollerabile.
Strinse i pugni e si alzò di scatto.
“Vogliate scusarmi, mi sento la testa spaccata in due!”
Con la mano aperta a pampina sulla fronte, si ritirò anzitempo nelle sue stanze, presto raggiunta da Rosa, la serva personale, l’unica domestica di casa sempre lesta ad accudirla, ossequiarla ed omaggiarla con apprezzamenti stucchevoli che esaltavano la vanità della Baronessa.
Rosa non le dava mai torto e, ad ogni melenso “Vossignoria avi ragiuni”, la padrona sganciava una perlina, un anellino d’oro, una spilletta, minuti oggettini di poco valore che le era venuti a noia.
Complimento uguale gioiello, e Rosa, dando fiato alle trombe, accumulava scarti su scarti, li cambiava in moneta e, ormai dimentica delle privazioni un tempo sofferte, la prestava ad usura profittando della miseria altrui.
Le emicranie della Baronessa furono presto seguite da malumori, scatti d’ira e cupi momenti di depressione. Sintomi d’una malattia inspiegabile ai parenti e diagnosticata dai medici quale un comune malessere, probabilmente collegato all’alimentazione. Ad ogni buon conto e, per un si e per un no, consigliarono di stuppare gradatamente la malata con dosi modeste di lassativo.
“Domani mattina, per prima cosa, una tazza di latte caldo con un cucchiaino raso di manna. Raso mi raccomando, raso! Se no l’inferno succede!”
La ripresa fu talmente lenta che il figlio Paolo iniziò seriamente a preoccuparsi dello stato di salute della madre, la quale trascorreva le giornate tra il letto ed il renale, il renale ed il letto. I miglioramenti furono evidenti allor quando, nel percorso letto - renale e ritorno, si inserirono brevi soste alla finestra che si affacciava sul cortile del palazzo, per osservare il via vai di cavalli e carrozze, l’operare dei servitori, ed i movimenti della figliastra sempre sorridente, troppo sorridente, specie con i domestici.
“Cose inaudite! Ma talìa come discorre coi dipendenti? Come li tratta alla pari!?! Troppa libertà le hanno dato! … Talìa quel garzone di stalla come se la sta spolpando con gli occhi!?! Decoro e disciplina, ecco cosa manca in questa casa! Decoro e disciplina!”
Sempre a parere della Baronessa, tal modo, a dir poco indecente di relazionarsi con la servitù, dispensando sorrisi a iosa, dava licenza a pensieri malsani e osceni, istigava al peccato e, cosa ben più importante, infangava la casata.
Sei mesi prima della data prefissata per il matrimonio, la Baronessa risanò di colpo. Col ritorno alla normalità ricominciarono gli inviti, le serate al teatro e le gite sulla carrozza patronale trainata da quattro cavalli sanfratellani, dal pelame nero corvino e dai nomi insoliti imposti dal Barone: Carlo, Giovanni, Benedetto e Gioacchino.
Una maniera personalissima, e non tanto ossequiosa, per onorare il Re, il Vicerè, il Papa ed il Vescovo. I cavalli, docili per natura, sopportavano l’ingiuria.
Usando l’abaco della religione, la Baronessa Lucia della Filinia si prefissò quattro scadenze per il mese di dicembre: il 6 Nicola, l’8 Maria, il 13 Lucia, il 25 lu veru Messia.
Quattro festività in cui spalancare i portoni del palazzo a feste, banchetti, incontri danzanti e svaghi di vario tipo. Impegni necessari e doverosi che la nobile famiglia, affidandosi alla terminologia anglosassone ancora in uso, definiva relationship, e la servitù, caricata dall’immane lavoro, si limitava a chiamare malu chiffari.
Tra diversivi indispensabili e distrazioni fondamentali, la mente della Baronessa correva sempre al matrimonio di Fiammetta ed alla dote che si sarebbe portata dietro come un fiume in piena che passa e arricampa tutto. Un fiume da temere, da arginare, da … PROSCIUGARE!
Eliminare la figliastra divenne un tarlo costante, e tra mille soluzioni sul come fare, talune addirittura brutali, decise, al fine, di soffocarla con presunte, ma efficaci accuse di licenziosità.
La tattica iniziò con l’esortare il Barone affinché la figlia fosse un po’ meno... .
“Meno che?” le chiese il marito.
“Un po’ meno espansiva, specie con i sottoposti”
Dopo una lunga pausa ad effetto, continuò: “Un po’ meno briosa, provocante, d’altra parte sta per sposarsi!”, e con dita vibranti si sfiorò il lungo collo, invitando il marito a rimirare la vera classe che non necessita di essere atteggiata.
“Ma chi stai cincischiannu?”. Con le mani ancora chiuse a coppo, il Barone ricercava nella figlia quel crescendo di atteggiamenti smodati che, ai suoi occhi, esprimevano piuttosto serenità, spensieratezza e solarità.
“Finiscila và!”. Offeso nel ruolo di padre educatore, l’uomo si alzò e andò via.
La Baronessa invece continuò imperterrita nella sua missione.
Iniziò a prendere accordi, stabilire compensi per lisciare il pelo a questo e quello, allestire i preliminari, considerare le eventuali contromosse e ricercarne le alternative.
Per Natale, mentre il mondo apriva la parentesi alla bontà ed alla mitezza, in cui si era pronti a fare esclusivamente del bene e sperare di ricevere altrettanto, ella calò il palamito armato di intrighi e macchinazioni.
“Un terremoto deve succedere, un terremoto!” e si mise in attesa.
Il ballo di Carnevale del martedì grasso, la Baronessa volle dedicarlo all’avventuriero veneziano Giacomo Casanova, le cui imprese amorose spopolavano ovunque nel Regno. Gli abiti delle dame richiamarono dunque la seduzione, quelli dei cavalieri la forza mascolina, e le ampie maschere, con cui celare i tratti, l’inganno.
Le coppie, giunte spaiate ed ignare dei travestimenti dei loro congiunti, iniziarono le danze e fu un turbinare di gambe virili avvinghiate a sottane variopinte, un tintinnare di gioielli ed orecchini a guisa di mora, un morbido ribollire di seni, a malapena coperti, che traballarono come budini di bianco mangiare.
L’anonimato rese arditi dame e cavalieri, ed in difesa di avances audaci, accorse in aiuto il dubbio: “Bedda Matri ti scanciaiu, credevo fossi tu!”
Lo scambio fece infatti parte del gioco, l’insidia si celò ovunque.
Nascosta nell’ombra vi era Rosa, la serva fedele, abbigliata tale e quale alla figliastra della Baronessa.
Nel clou della festa, una cameriera sbadata, versò inavvertitamente sull’abito di Fiammetta un bicchierino di rosolio rosso rubino, da smacchiare all’istante.
Durante l’assenza della figliastra, la Baronessa ebbe un violento accesso di tosse, un soffocamento improvviso che la costrinse a sostenersi al marito e ricercare un po’ d’aria frisca sulla terrazza che si affacciava sul cortile interno del palazzo.
Il Barone, tamburellando leggermente sulle spalle della consorte, osservò una figura abbigliata come Fiammetta che, dopo aver attraversato furtiva la corte, malamente illuminata dai lampioni a petrolio, procedeva verso le stalle e si buttava tra le braccia dello stalliere.
“Fiammetta? Oh figghia sciagurata!”
L’indomani mattina, puntuale come la Baronessa aveva preannunciato giorni prima alla Madre Superiora, la ragazza arrivò al Convento.
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“A’ pisciariiiii!” E pisciò! Suor Clementina usava declamare ai quattro venti il bollettino ufficiale delle sue esigenze corporali, bisogni impellenti senza negoziazioni. Esclusivamente un dato di … già fatto.
Quattro suore, le più in carne, le andarono incontro e, con tutta la sedia, la riportarono nel suo nuovo alloggio per il cambio tonaca.
Difatti, dopo la caduta che le aveva procurato la distorsione della caviglia, impedendole di raggiungere la sua cella, posta al piano superiore, la vecchia suora fu traslata in un locale situato tra la dispensa e la cucina. Un vano di passaggio che d’inverno riceveva il calore del focolare, d’estate una lieve brezza proveniente da un’alta finestrella che si affacciava sulla vanella di comunicazione tra Via Porto Salvo e la Via Regia e, in tutte le stagioni, i fermenti odorosi di ricotte salate, provole, olive in salamoia, giarre di olio e numerosi catusi di vino.
Sembrava che anche Suor Clementina traesse conforto dalla stagionatura. La pelle del viso appariva più luminosa e rosata e, nelle giornate più calde, la vecchia suora si accendeva di uno spirito gaio che le ardeva le guance e gli occhi. Più che contenta pareva ‘mbriaca, e parlava, parlava, parlava.
A detta delle suore, a volte straparlava pure, raccontando di viaggi in mare, ora a bordo del vascello a vela Vesuvio, ora della fregata a motore Ettore Fieramosca, o del brigantino Intrepido.
Narrava di lidi lontani raggiunti a favore di vento, contro vento, in burrasca, spiegando i velami degli alberi di trinchetto, di maestro, di mezzana, dei pennoni di parrocchetto, velaccio, controvelaccio, gli avvistamenti dalla coffa o dal colombiere.
“Terra a drittaaaa! Terra a babordooooo!”
La cultura marinaresca di Suor Clementina lasciava allibite le consorelle che, ignare del suo passato, erano propense ad immaginare che, nei trascorsi della vecchia suora, fossero effettivamente avvenuti i viaggi di cui narrava.
“E passi pure questo oscuro fraseggiare!” sostennero le suore rivolte alla Madre Superiora. “Ma a volte pare che Suor Clementina duetti con qualcuno, intercalando le cronache dei suoi viaggi con parole … irripetibili Madre. Irripetibili! E’ forse opportuno interpellare il medico o … ?”
“Prima il dottore, poi si vedrà …!”
Procedendo per esclusione, venne dunque richiesta la consulenza dell’illustre Dottor Caracciolo, specialista in demenza senile presso la reale Cattedra dell’Università di Palermo.
La diagnosi medica, spiegata spicciamente, sosteneva la tesi che: “In casi similari di storture, fratture, rotture eccetera, eccetera, eccetera, può accadere, è vero, che delle minuscole scaglie ossee navighino liberamente nell’organismo. Per cui, nel caso in esame, detti frantumi, mossisi dalla caviglia, sono saliti su, su, su, sino a raggiungere la massa cervellare, la quale disturbata, è vero, in punti sensibili, risponde determinando questi spiacevoli inconvenienti. Dobbiamo solo pazientare ed attendere che l’organismo medesimo espella l’intruso! Non muovetela e lasciate che riposi in pace!”
Armate quindi di pazienza, le monache iniziarono a controllare gli sputi di Suor Clementina, alla ricerca dei frantumi ossei che perdurarono a fluttuare nel corpo della vecchia e, dopo due mesi dalla visita del luminare, navigando alla deriva, non erano ancora fuoriusciti e parevano essere approdati in acque forestiere. Nuovi ed incomprensibili vocaboli quali: “Hombre, compañia, bras, niña”, riempirono, ancor più, l’idioma folcloristico della suora, rendendo attendibile l’ingerenza satanica e la necessità di chiamare il prete esorcista.
“Allertate il Vescovo d’urgenza!” ordinò la Badessa.
Incapace di far fronte alla peggiore sciagura che potesse colpire quel luogo di fede, la Madre Superiora decise, a sua volta, di predisporre, accanto l’uscio aperto della consorella, delle veglie di preghiera, durante le quali venne richiesto alle anime dei defunti ed a quelle in transito dal Purgatorio, un modesto contributo alla salvezza. Al nulla di fatto, venne allora sollecitato l’intervento massiccio di tutti i Santi, del Padre eterno e della Vergine Madre di Dio che, miracolosamente, accorse rispondendo per bocca della vecchia suora: “Maria Pia te quiere”..
Tra i velami dell’indecifrabile lessico, probabilmente spagnolo, fece finalmente capolino un nome riconoscibile, il più santo che si potesse attendere. E dal momento in cui, all’interno del corpo della monaca, stava avvenendo uno scontro tra titani, la Madre Superiora ritenne inutile affidarsi ad un banale intermediario terreno.
Il Vescovo, al contrario, decise di sfruttare la presenza in loco del primo esorcista del Regno, reclamato da tutte le contrade, subissato da tali e tante richieste di interventi provvidenziali, da sottoporlo a continui spostamenti per terra e per mare. L’occasione giungeva opportuna, e dunque perché non approfittarne?
Padre Ennio si presentò così al convento, spiegando alla Madre Superiora la necessità di scavare a fondo la questione, e comprovare che non vi fossero clandestini all’interno della vecchia suora.
“Da espertissimo del settore quale io sono, pur ritenendo plausibile l’intercessione della Pia Madre, mi sento di aggiungere che, pur di proseguire la sua opera nefasta, il male può parlare molte lingue, assumere svariati aspetti e confondere le menti semplici. Capirete bene che sono il solo che può giovare alla causa del bene. Concedetemi quindi di attivarmi e, posto che esista, renderò manifesto il vizio e lo estirperò!”. Il pugno serrato del prete si levò alto al cielo, sotto lo sguardo allucinato della Madre Superiora, ancora dubbiosa sul da farsi.
Al fine, Padre Ennio, abituato com’era a relazionarsi con un osso duro quale il demonio, non trovò alcuna difficoltà ad esorcizzare anche la titubanza della Madre Superiora e, lasciato solo dinanzi al capezzale della probabile indemoniata, trasse dalla sacca l’armamentario del mestiere, ed avviò le procedure di purificazione.
Le sommesse litanie del prete sedarono ancor più Suor Clementina, già spossata da una notte insonne. L’acqua benedetta, aspersa sul corpo e sul volto, la destò giusto l’attimo di domandare con voce impastata, un flebile: “Cu è?”
“Sono Padre Ennio, Madre!”
“Ola Padre Enio! Ven en los brazos de su esposa.”
Le parole biascicate di Suor Clementina ebbero un effetto a dir poco esagerato sul sacerdote che, levati di colpo i paramenti sacri e radunati gli arnesi, si proiettò fuori dalla camera della monaca, sotto gli occhi sbigottiti delle suore in preghiera.
Inseguito dalla Madre Superiora, e pressato dalla stessa sulla gravità dell’inferma, non volle dilungarsi nelle spiegazioni. Ma, prima di fuggire via, esclamò d’un fiato: “Non v’è nulla da fare!”
A dir la verità, per liberare Suor Clementina dal “male oscuro” che l’affliggeva, sarebbe bastato chiudere la piccola finestrella che si affacciava sulla vanella. Oltre la stessa vi era, infatti, il mondo degli scaricatori di porto e dei marinai che, approdando al vecchio molo, dopo lunghi mesi di navigazione, venivano accolti da donne pronte a saziare voglie sopite.
“Maria Pia la spagnola” aveva la brace negli occhi e il fuoco nelle carni olivastre. Ardore puro nell’arte della seduzione che trasmetteva alle sue tele vive, sempre pronte a riceverne i favori. La malia erompeva da uno sguardo, da un sorriso che scopriva denti bianchissimi e perfetti. Un passo da felino accendeva l’immaginazione e le voglie maschili che alzavano le vesti su caviglie sottili e gambe tornite, ed ancora più su, nei luoghi segreti che facevano sbavare gli affamati d’amore. Uomini di ogni età e ceto sociale, schietti e maritati, laici e religiosi, attendevano che sopraggiungesse in lei l’ispirazione, l’attimo fugace che le accendeva le pupille sotto ciglia di velluto.
Maria Pia, perfezionando il rozzo, lo storpio e l’uomo già perfetto, li trasformava in dei, e purificando l’atto dava valore al momento.
Tra tanti aspiranti delusi, pochi, pochissimi eletti scivolavano tra le sue lenzuola, esaltati dal privilegio della scelta. Sotto le dita sottili ed esperte della musa, essi divenivano tempere colorate e resine, amalgama di linfe, ed infine, capolavori appagati.
Chiamando il prescelto con voce morbida, Maria Pia prometteva il suo dono: “Ola …, ven en los brazos de su esposa.”
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