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6 Giugno 2019, 19:41 - Carlo La Calce [suoi interventi e commenti] |


Via Caracciolo
con il Convento dei Domenicani sullo sfondo
Sul lato sinistro i resti di quello che fu l’Osterio Piccolo
Pietre che parlano
Un’antica iscrizione in via Caracciolo, a Cefalù
Habent saxa quemadmodum voces suas (“le pietre hanno come una loro voce”).
Così scriveva nel XVIII secolo l’erudito ed archeologo romano Giovanni Giustino Ciampini, come citato da Furio Jesi nel suo libro “Il linguaggio delle pietre”.
E certamente tale affermazione assume tangibile evidenza se riferita in particolare alle iscrizioni, come nel caso di quella - che mi ha attratto e a cui mi accingo a dare risalto - inglobata nei resti di quello che fu l’Osterio Piccolo, in Via Caracciolo, a Cefalù.
In latino, negletta, usurata dal tempo e mutilata, non è di immediata lettura ma il testo, da me ricostruito, dice letteralmente:
HIC HOSPITAM(UR) AT IBI PER(MA)NEBIMUS
la cui traduzione è: qui dimoriamo e qui rimarremo
La frase si ricollega chiaramente ed in modo diretto alla celebre espressione latina Hic manebimus optime (“Qui staremo benissimo”) con cui - secondo quanto narrato da Tito Livio nel suo Ab urbe condita - un centurione romano avrebbe esortato il suo drappello ad accamparsi nei pressi della Curia a Roma, dopo l’incendio della città ad opera dei Galli nel 390 a.C., influenzando così la decisione del Senato romano di non abbandonare la città.
Con il significato di “Qui siamo e qui rimaniamo”, indicando la ferma volontà di non abbandonare un luogo o una determinata posizione, la frase, divenuta proverbiale, è stata utilizzata in moltissime occasioni storiche, anche ai giorni nostri.
Tutto ci induce dunque a ritenere che la nostra iscrizione esprima in modo risoluto la determinazione degli antichi occupanti l’edificio di cui essa era parte a mantenerne saldo il possesso della dimora, simbolo indiscusso di potere e di prestigio.
Una seconda chiave di lettura, certo più suggestiva ma forse meno probabile della prima, mi sembra tuttavia possibile: in quelle pietre potremmo scorgere infatti come una soglia, un limite varcato il quale non è più possibile tornare indietro ed in quella voce scolpita, in quel qui dimoriamo e qui rimarremo un ascoltatore attento potrebbe cogliere la sofferenza e la disperata rassegnazione di chi, trovandosi rinchiuso in una prigione, amaramente rimpiange la libertà perduta.
Non essendo un addetto ai lavori non posso che limitarmi ad una lettura “emotiva” dell’iscrizione, lasciando ad altri - in materia esperti e competenti - il compito di un eventuale approfondimento.
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