30 Novembre 2020, 13:32 - Angelo Sciortino [suoi interventi e commenti] |
Giorno 28, dopo circa quattro secoli, si è aperto a Cefalù il Sinodo. Non sarebbe male ricordare gli albori della Chiesa di Cefalù e della sua Diocesi.
Nel 1145 il re Ruggero II concedeva in perpetuo una serie di privilegi, che avrebbero accresciuto il potere della signoria vescovile di Cefalù: dovevano pervenire alla chiesa le rendite ed i diritti regi sulla città e sul mare; si doveva essere giudicati nel tribunale del vescovo per tutti i reati di natura civile e penale, tranne per quelli di omicidio e tradimento; gli abitanti di Cefalù erano esenti dal servizio militare; si poteva tagliare liberamente la legna nella foresta per usi edilizi o domestici; si potevano vendere i propri beni immobili, purché l’acquirente continuasse a risiedere a Cefalù; veniva concessa la possibilità di sottrarsi alla carcerazione pagando una fideiussione.
Il vescovado era nato sotto la forte influenza di Ruggero II, che aveva avuto il sostegno dell’Antipapa Anacleto II; con l’età dei due Guglielmo i rapporti con il papato di Roma si fecero più intensi e si strinsero alleanze volte a favorire la penetrazione della chiesa latina in Sicilia. Nel 1169 da Papa Alessandro III vengono “finalmente” riconosciute ufficialmente la diocesi di Cefalù e quella di Lipari-Patti, suffraganee dell’arcivescovado di Messina, che doveva provvedere anche alla scelta dei vescovi per le due sedi.
I rapporti tra l’Imperatore Federico II e il vescovado furono contrassegnati da una serie di episodi atti a favorire la diocesi di Palermo a discapito di quella di Cefalù; tra questi si segnala il trasferimento forzato dei sarcofagi ruggeriani nella Cattedrale di Palermo e la perdita del possesso del Castello di Cefalù. Il primo episodio vede come protagonista il vescovo Giovanni Cicala, che, al ritorno da una missione in Levante, scomunicò l’Imperatore per il fatto commesso. Questi, in risposta, donava il tenimento di Cultura o Cuctura senza restituire le due arche funerarie. I contrasti si acuirono qualche anno dopo tra Federico II ed il nuovo vescovo Arduino II, eletto intorno al 1217 e mandato in esilio, perché accusato dalla curia regia di sperpero. Il presule aveva allora chiesto l’intervento di Papa Onorio III, che aveva emanato una bolla di conferma dei beni della chiesa; tale documento, datato al 1223, ci riferisce lo stesso elenco di beni e diritti che aveva la chiesa già da tempo, con l’aggiunta dei diritti di decima per il casale di Coscasino. Nel 1224 si apre il processo al vescovo Arduino II, presieduto dall’arcivescovo di Cosenza in qualità di legato apostolico. Accusato di sperpero dei beni della chiesa, di mancata manutenzione della Cattedrale e di condotta poco decente, si difende affermando: di aver iniziato la riparazione di molti edifici di culto; di aver speso 800 tarì per il castello di Pollina; di aver fatto costruire alcuni mulini e di aver riparato quello di Roccella; di aver acquistato la chiesa di Santa Maria di Roccella; di aver avuto restituiti i feudi di Caltavuturo, Cammarata, Capizzi e Mistretta; infine, di aver ricomprato i beni della chiesa di Santa Lucia di Siracusa, donati dalla Contessa Adelicia e venduti dai suoi predecessori. Processo e contesa si chiudono con un compromesso: Federico II acquisisce la custodia del castello di Cefalù ed Arduino II viene reintegrato nei suoi privilegi ottenendo la restituzione dei beni che erano stati usurpati alla chiesa di Cefalù. Il fortilizio sulla Rocca, chiamata nel gergo popolare “u castieddu, era considerato di importanza fondamentale per la presenza imperiale nel territorio delle Madonie in favore di una completa latinizzazione ed eliminazione dei fedeli di religione musulmana.
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