Pasquale Culotta, il Professore Porcinai e gli alberi sulla ROCCA

Ritratto di Saro Di Paola

10 Febbraio 2022, 12:45 - Saro Di Paola   [suoi interventi e commenti]

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Il commento di Angelo Sciortino al mio scritto di ieri (https://www.qualecefalu.it/node/24329) sulle condizioni del tratto orientale della cinta muraria sulla Rocca,
Caro Saro, se non si estirpano gli alberi, le cui radici corrodono la roccia emettendo un acido, gli interventi di somma urgenza non risolveranno mai il problema
mi ha fatto ricordare di una vicenda della quale mi servii, il 9 novembre del 2007, per commemorare Pasquale Culotta nel primo anniversario della sua dipartita.
Una vicenda, assai emblematica, di cui siamo, oramai, in pochi, ad avere contezza e che potrebbe essere assai utile a quanti, istituzionalmente, sovrintendono alla tutela e alla conservazione della Rocca di Cefalù e del suo parco archeologico.

La vicenda risale al 1964, quando un’immobiliare romana rappresentata da tale Contessa Ricci, propose al Comune di Cefalù un investimento di cinque miliardi delle vecchie lire, che nel 1964 erano una cifra enorme, per costruire alberghi con teatri e un casinò sulla Rocca a condizione che il Comune le trasferisse la proprietà del bene.

Pasquale Culotta, allora, primo Assessore all’Urbanistica del Comune di Cefalù, da allievo architetto riuscì a convincere il Presidente della Commissione Lavori Pubblici del Comune, che aveva espresso entusiastico parere favorevole sulla proposta dell’immobiliare romana, a ritornare sulla propria decisione.   

Si aprì un “dibattito straordinario, politico, sociale, culturale, che investì tutti gli strati della nostra comunità, ed ebbe eco e interventi a livello nazionale.
Il dibattito ebbe una straordinaria conclusione in una assise pubblica cefaludese che si tenne nella Sala delle Capriate con l’intervento di illustrissimi personaggi quali, il Prof. Vincenzo Tusa, Soprintendente alle Archeologie della Sicilia Occidentale, il Prof. Giuseppe Bellafiore, docente di Storia dell'Arte, e soprattutto l'Architetto Pietro Porcinai, che allora era, in Italia, l'unico professore di Arte dei Giardini, e insegnava alla Facoltà di Architettura di Firenze.
Pasquale Culotta, che aveva conosciuto Porcinai su segnalazione del Prof. Giuseppe Samonà, lo portò sulla Rocca per un sopralluogo.

Allora la Rocca era un sasso brullo senza un filo d’erba, senza un albero, con una identità paesaggistica talmente chiara e definita da indurre Porcinai a lanciare un monito:
Anche un albero, e ve lo dico da paesaggista, un solo albero sulla Rocca ne può alterare il valore”.
                                                   
L’ammonimento di Porcinai colse nel segno perché in seguito -vinta la battaglia contro la contessa Ricci- un maresciallo della Forestale, pensando di fare del bene, ma senza nessuna autorizzazione, decise di forestare la Rocca e -con sacrifici inauditi, con i muli e l'impiego di lavoratori stagionali- vi trasportò acqua e zolle di terreno, per piantumarla. In questo modo creò però un disastro, perché tutta questa nuova vegetazione, pini, coniferi ed eucalipti, ha trasformato il suolo e provocato danni non solo alle specie vegetali endemiche e ai loro equilibri preesistenti, ma anche alle rocce sottostanti, alla loro struttura e condizione statica, con la conseguenza di ripetuti crolli e frane di massi sui tetti dell'abitato, e la collocazione di opere provvisionali, i cosiddetti cavalli di Frisia”.

Sulla vicenda del 1964 non aggiungo altro.
Per chi volesse conoscerne ulteriori dettagli, pubblico in calce a questo scritto il testo integrale del post che pubblicai, su Cefalunews e su altri siti telematici, il 9 novembre del 2007, nel primo anniversario della dipartita di Pasquale Culotta.

L’ECCELSA RUPE che Rosario Ilardo, già Sindaco e Segretario Generale del Comune di Cefalù, ha studiato come nessun altro, il  sasso brullo che, per essersi formato nel cretaceo, il terzo periodo dell’era mesozoica, era rimasto senza un filo d’erba e senza un albero per cento milioni di anni,
                                                  
oggi nel 2022, dopo mezzo secolo dalla sua forestazione selvaggia, è più selvaggio che mai.
Con gli eucalipti e i pini che vennero impiantati a ridosso della cinta muraria
                                                               

              

                                                    
con gli ogliastri e la macchia mediterranea che sono attecchiti e cresciuti spontaneamente, sino ad insinuarsi tra le pietre della cinta muraria.
             

Condizioni della vegetazione che, come documentato dalle foto, fornitemi ancora dall 'Architetto Salvatore Giardina, non possono non dare ragione ad Angelo Sciortino:
se non si estirpano gli alberi gli interventi di somma urgenza non risolveranno mai il problema.

Il finanziamento di  un intervento per estirpare, almeno, la vegetazione che minaccia la stabilità della cinta muraria e quella dei massi e delle pareti della Rocca che incombono sull'abitato e sulle strade sottostanti, sarebbe urgente, almeno, quanto quello già erogato  per la mitigazione del rischio di caduta massi e quello che dovrà essere erogato per il restauro e la messa in sicurezza del brano della cinta muraria di cui ho scritto nel mio post di ieri.
 
Saro Di Paola, 10 febbraio 2022

Il mio ricordo di Pasquale Culotta nel primo anniversario della sua dipartita 
(per quanti volessero conoscere ulteriori dettagli sulla vicenda del 1964)

UNA PAGINA INEDITA DELLA STORIA DI CEFALU’ NEL RACCONTO DELL’ARCHITETTO PROF. PASQUALE CULOTTA
(quando avevano deciso di vendere la rocca)

L’INTRODUZIONE AL RACCONTO
A Cefalù, nei primissimi anni sessanta, la campagna di agrumeti e di orti che, dal lato di occidente, a partire dal “Carbaniu”, incorniciava nel verde le rare ville che i più fortunati tra i suoi emigrati in America avevano costruito ai lati della settentrionale sicula, cominciava ad essere inghiottita dai primi “casermoni” in cemento armato.

I cefalutani più fortunati cominciavano a lasciare le case e le stalle del centro antico. Erano umide e maleodoranti ed al più fornite di un cesso con lavandino attaccato alla “tannura a ligna” o alle prime cucine a gas.

In molti, nel miraggio del “quartino” nei primi “palazzi nuovi”, con la “cucina all’americana e con la doccia nel doppio servizio”, cominciarono a cedere quelle case e quelle stalle ai madoniti che per abitarle, quando potevano, le risanavano.

La città era in forte regressione in quei settori che, sino ad allora, avevano trainato la sua economia: la pesca, l’agricoltura, l’artigianato.

I madoniti immigravano a Cefalù ed i giovani cefalutani emigravano da Cefalù. Per la Svizzera, per la Francia, per Milano, per Torino……

Il turismo era “poco più di una parola vaga”.

Le capanne del Club Med avevano, da poco, soppiantato le tende del Village Magique, l’albergo Barranco ed il Jolly Hotel offrivano, soltanto, poche camere: per una notte, o due, a commessi viaggiatori e commercianti di passaggio più che a turisti.

Peppino De Gaetani, “Mazzarrà” dal nome del paese di origine, aveva, da poco, trasformato, a Santa Lucia, la sua stalla in bar.

Palermo, Enna, Caltanissetta, Mussomeli, Pietraperzia……, senza le autostrade, erano lontanissime.

La Città era, anche, in crisi politico-istituzionale, il Consiglio Comunale era stato sciolto.

Il commissario prefettizio, dott. Giannuoli, reggeva il Comune.

Si era nel 1962, alla vigilia di nuove elezioni comunali, quando un giovane cefalutano, poco più che ventenne, insieme ad altri amici, cominciò ad occuparsi di Politica: quella con la maiuscola.

Cominciò, cioè, ad occuparsi e preoccuparsi dei problemi della città in cui era nato ed in cui viveva.

Era Pasquale Culotta, studente di Architettura.

Avendo Egli intuito, prima e più dei suoi giovani amici, nella “congestione del territorio” la più probabile delle ripercussioni dei due processi appena innescati, l’espansione edilizia ed il turismo, cominciò a sensibilizzarli, per sensibilizzare la Città, sulla necessità di uno strumento che regolasse quelle mutazioni territoriali che, dopo quasi mezzo secolo, non si sono, ancora, esaurite.

Trovò humus fertilissimo nella “intelligentia” e nell’amore per Cefalù dei Suoi giovani amici.

Insieme a Loro, Angelo Culotta, Francesco Gallotta, Totò Di Paola e Agostino Di Benedetto, universitari come Lui ma di altre facoltà, stilò, firmò e fece stampare un manifesto dal titolo “UN CONVEGO CHE VA FATTO”.

Si leggeva in quel manifesto:

“… costretti a constatare che lo sviluppo della città si sta verificando all’insegna del disordine e della improvvisazione… ci sentiamo il dovere di chiedere alle Autorità competenti…… a) L’adozione d’urgenza di un piano di fabbricazione…….b) la promozione di un convegno di studiosi, onde aprire un dibattito sui più urgenti problemi economico-urbanistici del nostro paese……..che dovrebbe avere come tema principale “NECESSITA’ DI UN PIANO REGOLATORE A CEFALU’”.

Il Commissario prefettizio, consegnò quel manifesto all’Uomo Politico “più in vista del tempo, il dott. Giuseppe Giardina, già esponente de Partito Popolare di Don Sturzo”, che, al momento delle elezioni, chiese ai giovani di impegnarsi in prima persona, al Suo fianco.

I giovani, senza tessera di partito, per quanto “formatisi su base cattolica…soprattutto all’università…..erano usciti da quel seminato e leggendo di Salvemini e di Gramsci avevano cercato altre strade” : erano divenuti di idee socialiste.

Perciò, “l’offerta di entrare in una lista capeggiata da un D.C. li mise in crisi”.

Si chiesero se, per Loro, sarebbe stato giusto accettare.

Decisero di “dover provare” ma, dei cinque, chi si sarebbe dovuto “sacrificare”?

Scelsero Pasquale Culotta.

La “comparsa” la avrebbe fatta Lui che aveva stilato il manifesto.

Candidatosi consigliere, risultò tra gli eletti ed il dott. Giardina, rieletto sindaco il 19 dicembre del 1963, Lo volle in giunta, PRIMO ASSESSORE ALL’URBANISTICA DEL COMUNE DI CEFALÙ.

Ricoprì quella carica, per meno di diciotto mesi, sino al 10 maggio 1965, quando, annusata l’aria di fronda nei Suoi confronti, si dimise.

Non venne confermato assessore nella successiva giunta che, guidata dal sindaco dott. Prospero Giardina, finì per essere, ironia della sorte, la prima di centro sinistra della storia amministrativa di Cefalù.

Furono, per Cefalù, DICIOTTO MESI POLITICAMENTE FORTUNATI.

Infatti, l’assessore Culotta, in quei diciotto mesi, ebbe il tempo di indicare nel professore Giuseppe Samonà l’urbanista da incaricare per la redazione del programma di fabbricazione e del Piano Regolatore Generale e di ottenere, al riguardo, il voto favorevole del Consiglio nella seduta del 10 giugno 1964.

Ma non solo, in quei diciotto mesi, Egli si rese protagonista di quella pagina inedita della storia di Cefalù che ho ritenuto di proporre, nel primo anniversario della Sua dipartita.

Una pagina che, nelle due vicende che racconta, esalta, nella sua autenticità, quel rapporto con la “Rocca” e, quindi con Cefalù, che avrebbe, poi, contraddistinto tutta la vita del giovane Culotta.

L’assessore che, in quei diciotto mesi, salvò LA ROCCA, dai più grossi rischi che LA PIETRA DI CEFALÙ, LA SUA PIETRA, LA NOSTRA PIETRA abbia mai corso nel corso dei suoi cento milioni di anni.

È una pagina nel racconto dello stesso Pasquale Culotta, non più ventenne studente di Architettura nella facoltà di Palermo, ma sessantenne docente di Architettura nella stessa facoltà, dopo esserne stato preside.

Un racconto tratto dalla conferenza dal titolo “CEFALU’: 40 ANNI DI PROGETTO URBANO” che Egli fu invitato a tenere, il 22/11/2003, nella sala del Museo Mandralisca agli studenti del laboratorio di laurea del prof. Marcello Panzarella.

Pubblico il racconto sulle pagine dei giornali telematici di Cefalù per concessione dei familiari e del prof. Panzarella che ha, interamente, deregistrato quella conferenza per inserirla in un volume su Pasquale Culotta di Sua prossima pubblicazione.

 

Il RACCONTO DI PASQUALE CULOTTA

“Nel 1964, quando ero ancora assessore e assieme studente di architettura, tornando una sera da Palermo mi recai al Municipio, dove all'ultimo piano trovai in corso una riunione della Commissione per i Lavori Pubblici. Essa era allora presieduta da un nostro caro amico, anche lui oggi scomparso, l'ing. Nino Vazzana. Vedendomi sopraggiungere, subito esclamò: “Pasquale! Abbiamo approvato un progetto straordinario, bellissimo. Faremo cose importanti!”. Chiesi di che si trattasse e risultò che una società immobiliare di Roma, rappresentata da una certa contessa Ricci, si era proposta per la realizzazione di un intervento da cinque miliardi (che in lire del 1964 erano una cosa davvero enorme, specie se ci ricordiamo che nello stesso tempo i contadini e i pescatori emigravano da qui con le valigie di cartone, legate da lacci). L'idea era quella di costruire degli alberghi sulla Rocca, con un casinò e teatri. La Rocca di Cefalù era, ed è, l'unico patrimonio comunale, non demanio, ma proprietà commerciabile. Considerate che allora, benché si incominciasse a vedere una prospettiva nel turismo, l'economia della città, e quindi del Comune, era in forte regressione. Dunque, fu proprio un'iniziativa turistica quella che venne a proporre il patto più accattivante: gli fosse regalata la Rocca e avrebbero garantito l'occupazione per centinaia di famiglie, in quegli alberghi. Mi trovai, quel sabato sera, di fronte a questo progetto e a quell'entusiasmo, oggettivo. Dissi a Vazzana: “è tutto sbagliato!” Non so quale coraggio, o incoscienza, mi permisero di dire, in quella situazione, quello che davvero pensavo. “Che avete fatto? - aggiunsi - che avete fatto!”. Incredulo l'altro rispose: “Ma che mi dici, sei pazzo?” Gli proposi che ci vedessimo il mattino seguente, che era domenica, e stessimo lì assieme un paio d’ore, perché potessi mostrargli l'errore. C'era stata, in effetti, in precedenza, una nostra attività politica che aveva portato alla dismissione delle cave di pietra della Rocca, con la proibizione di ogni attività di fornaci, che fin allora, sulle falde, avevano prodotto la famosa calce di Cefalù. Anche questa era stata una mia iniziativa, portata avanti secondo un ragionamento che riconosceva incompatibile questo sfruttamento in previsione di un bene più aperto ad una prospettiva turistica. Il Sindaco, che mi teneva in grande considerazione, aveva accolto subito la mia proposta e ne aveva favorito l'approvazione in Giunta, nonostante fosse una decisione molto dura, specie per le numerose famiglie che da quell'attività traevano allora il sostentamento. Tra l'altro, la calce di Cefalù era molto pregiata, perché ottenuta da un calcare di grande qualità. Nonostante ciò, il Sindaco, che vedeva molto chiaramente quale fosse la linea più conveniente per la città, e aveva già avviato i lavori del lungomare e del porto, riconobbe che nella prospettiva del turismo quel bene doveva essere salvaguardato, dunque rimase stabilito che dalla Rocca non si potesse più cavare.

Quella domenica mattina mi trovai però di fronte al problema di spiegare il nuovo errore. Do atto all'onestà intellettuale del mio interlocutore di essere stato sensibile ai miei argomenti e di avere avuto il coraggio di annullare la propria decisione della sera precedente, insieme con i membri di quella commissione.

Nacque da qui un dibattito straordinario, politico, sociale, culturale, che investì tutti gli strati della nostra comunità, ed ebbe eco e interventi a livello nazionale. Noi rientrammo in quel momento in una discussione condotta da personaggi che già costituivano un riferimento nel campo degli studi e della tutela dell'ambiente e del paesaggio, tutte questioni e concetti che erano ancora privi persino delle parole che li definissero. Cesare Brandi, che allora insegnava a Palermo, e che naturalmente io andai subito a trovare, intervenne con un articolo sul Corriere della Sera; intervenne Italo Insolera; intervenne Bruno Zevi (ovviamente ero andato a trovare pure lui, utilizzando percorsi e conoscenze favoriti dal mio essere studente di architettura, dall'essere al corrente di un tessuto di relazioni tra persone che con la loro azione testimoniavano un modo di fare cultura proprio della nostra disciplina).

La vicenda si concluse con una straordinaria assise pubblica cefaludese, nottetempo, al Municipio, nella Sala delle Capriate. Intervennero diversi personaggi, che voglio ricordare: il Prof. Vincenzo Tusa, Soprintendente alle Archeologie della Sicilia Occidentale; il Prof. Giuseppe Bellafiore, docente di Storia dell'Arte, e soprattutto l'arch. Porcinai. Egli era allora in Italia l'unico professore di Arte dei Giardini, e insegnava alla Facoltà di Architettura di Firenze. In quel momento egli era già un personaggio importante nel campo del progetto del paesaggio, perché, da consulente di Luigi Cosenza, aveva lavorato al famoso progetto per la Olivetti a Pozzuoli. Lì, in quell'opera adesso così poco conosciuta, ma allora molto frequentata e ammirata da noi giovani studenti di architettura, Porcinai aveva introdotto una peculiarità, in altre parole un giardino interno alla fabbrica. Su segnalazione di Giuseppe Samonà, ero andato a trovarlo, lo chiamai, e venne volentieri. Prima di quella notte, che direi referendaria, che doveva decidere tra l'abbandono della Rocca alle logiche della trasformazione speculativa, e un suo diverso destino, quale bene disponibile per un godimento sociale e culturale, io e Porcinai vi facemmo un sopralluogo, e la risalimmo a piedi. Allora lassù non c'era nessun albero. Se osservate le cartoline dell'epoca, ve ne accorgerete: fino agli anni '60 la Rocca di Cefalù era un sasso brullo, senza un filo d'erba, senza un albero. Questa era la sua identità, la sua realtà paesaggistica. Quella notte Porcinai disse: “Anche un albero, e ve lo dico da paesaggista, anche un albero sulla Rocca ne può alterare il valore”. Devo dire che il suo ammonimento, direi il suo presagio, aveva colto nel segno, perché in seguito - vinta la battaglia contro la contessa Ricci - un maresciallo della Forestale, pensando di fare del bene, ma senza nessuna autorizzazione, decise di forestare la Rocca e - con sacrifici inauditi, con i muli e l'impiego di lavoratori stagionali - vi trasportò acqua e zolle di terreno, per piantumarla. In questo modo creò però un disastro, perché tutta questa nuova vegetazione, pini, coniferi ed eucalipti, ha trasformato il suolo e provocato danni non solo alle specie vegetali endemiche e ai loro equilibri preesistenti, ma anche alle rocce sottostanti, alla loro struttura e condizione statica, con la conseguenza di ripetuti crolli e frane di massi sui tetti dell'abitato, e la collocazione di opere provvisionali, i cosiddetti cavalli di Frisia, che nessuno di noi sa se mai più potremo vedere rimossi dalle falde, lungo il fronte a monte del centro storico. Quell'ammonizione di Porcinai ritorna sempre nella mia memoria come un passaggio educativo importante: "Anche un albero può alterare, ed altererà, se lo pianterete, questo paesaggio". Da un canto egli aveva spiegato la sua lettura, dall'altro aveva avvertito che qualunque modificazione aveva bisogno di essere sottoposta a controllo: e questo, di là dal riferimento estremo anche ad un solo albero, era stato il significato autentico della sua lezione. Ne riusciva l'importanza del senso della modificazione, non un discorso contro la modificazione, ma il richiamo di un grande progettista alla necessità del controllo.

Su questo richiamo, la città si convinse che era più giusto lasciare quel patrimonio al godimento di tutti, cosa che dura fino ad oggi, così che la Rocca è tuttora un vero patrimonio della nostra città.”

 

OGNI MIO COMMENTO AL RACCONTO È SUPERFLUO.

Preferisco affidare questa pagina di storia di Cefalù, oramai nota soltanto a pochissimi, alla riflessione di quanti avranno l’interesse di leggerla.

Pur tuttavia, dal profondo del mio animo sento, forti, DUE ESIGENZE.

DIRE:
GRAZIE ARCHITETTO PASQUALE PER ESSERCI STATO!

GRIDARE, a tutta gola, CEFALÙ CITTÀ INGRATA!

Saro Di Paola, 9 novembre 2007

 

 

Commenti

Caro Saro, mi viene in mente l'adagio la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzion. Chi creò la forestazione della Rocca aveva buone intenzioni, ma non tenne conto del consiglio di Porcinai: "Anche un albero, e ve lo dico da paesaggista, un solo albero sulla Rocca ne può alterare il valore".

Io non ho nulla da aggiungere al tuo resoconto, se non un grazie profondo e la speranza che il popolo di Cefalù la smetta finalmente di farsi derubare del suo impareggiabile e millenario paesaggio dagli speculatori edilizi, dagli amministratori con la mente chiusa, dall'altera superbia degli ignoranti. Noi vecchietti ne sappiamo qualcosa di quante bellezze ha perso Cefalù; di quanta stupidità le ha distrutte; di quanta presunzione, ancora oggi, non convince tanti che le loro buone (?) intenzioni non porteranno Cefalù in un paradiso, ma la stanno facendo sprofondare in un girone infernale.